C'è ancora domani, e altri racconti. Un'analisi delle rappresentazioni della violenza sulle donne nel cinema italiano contemporaneo
Gaia Peruzzi1, Raffaele Lombardi2, Alice Rampolla1, Angelica Spampinato1
1Sapienza Università di Roma; 2LUMSA Università, Roma
Nel 2023, per la prima volta dopo anni, il campione di incassi nelle sale è un film italiano: C’è ancora domani, di Paola Cortellesi, storia di violenza domestica ambientata nell’Italia degli anni Cinquanta. Seppure con una diffusione non paragonabile, dal 2021 al 2024 sono più di una decina le produzioni cinematografiche nazionali con il plot incentrato sul medesimo soggetto. Dopo essere assunto al mainstream della politica e dell’attualità, il tema della violenza contro le donne ha dunque cominciato a penetrare la sfera culturale (Fornari 2018; Giomi 2019, Rossi & Capalbi 2022).
Il cambiamento suscita interrogativi interessanti sul ruolo che media diversi giocano nel plasmare le percezioni sociali e rinnovare gli immaginari (Couldry & Hepp 2016). Infatti, se da una parte sembra essersi ormai affermata, almeno in certi livelli della società, la concezione che le violenze di genere sono un problema culturale (Peruzzi, 2022), e dunque che i media hanno un ruolo strategico nei processi di creazione e decostruzione degli stereotipi, d’altra parte è vero che le politiche di prevenzione e contrasto del fenomeno – sia quelle promosse da enti pubblici che privati – si sono concentrate quasi esclusivamente sulle campagne pubblicitarie. E se il persistere dei femminicidi e delle violenze è un monito costante a valutare l’efficacia di tali misure, studi recenti hanno evidenziato come proprio le comunicazioni dagli spot non siano esenti da messaggi controproducenti (Lombardi 2022).
Sulla base di queste considerazioni, le autrici e l’autore della presente proposta si sono interrogati sul ruolo del cinema italiano nella lotta alla violenza contro le donne: Quali narrazioni diffonde il cinema italiano contemporaneo riguardo al tema della violenza di genere? Quali ricorrenze si rintracciano nei film italiani, in termini di identità e problemi narrati, di frame e stereotipi diffusi? Come rappresentano e come interpretano la violenza sulle donne i registi e le registe italiani? Quali differenze ci sono tra le rappresentazioni cinematografiche della violenze di genere e quelle di altri media?
A rendere interessante lo studio delle narrazioni cinematografiche sono alcune caratteristiche specifiche del medium e dei suoi format. Innanzitutto, il cinema è da sempre un media leader nella produzione di immaginari. In secondo luogo, esso ha un rapporto privilegiato con la modernità, di cui da sempre partecipa alla costruzione rappresentando processi fondamentali. Ma soprattutto, il cinema è un long format, che nel panorama mediale contemporaneo, dominato dai tempi accelerati e dalle forme sincopate, si distingue proprio per i tempi estesi del racconto e la struttura articolata delle narrazioni. Infine, il cinema è una forma di arte pubblica, con una vocazione irrinunciabile al dibattito, che vive di storie individuali esemplari per stimolare alla riflessione collettiva.
Il corpus di riferimento è costituito da 12 pellicole di (co)produzione italiana, estratte dalle classifiche annualmente rilasciate da Cinetel sui film più visti in Italia. In particolare, si è fatto riferimento alla classifica dei 100 film italiani più visti in ciascuno dei quattro anni di riferimento (2021-2024) in cui la violenza contro le donne è l’elemento centrale della trama. L’analisi qualitativa tematica ha mirato a rintracciare figure emblematiche e/o ricorrenti nella rappresentazione delle identità di genere, dei contesti e delle interazioni sociali, con particolare attenzione all’interpretazione dei significati da parte di uomini e donne, autori e vittime delle violenze, bystanders, familiari e istituzioni.
Intimità (Digitali) in Divenire: il Sexting nella Formazione Identitaria e nella Relazionalità delle Soggettività Giovani Adulte Queer in Italia
Rachele Reschiglian
Università degli Studi di Padova, Italia
Le intimità digitali si creano anche nelle pratiche di sexting. Nonostante l’interesse accademico e pubblico per il sexting, pochi hanno considerato l’impatto di questa pratica su soggettività adulte emergenti queer, evitando il panico morale. Questo lavoro mira ad ampliare la conoscenza sulle intimità digitali comprendendo come le persone queer danno senso alla loro sessualità digitale, identità, e relazionalità negli scambi di sexting attraverso performance/rappresentazione multimodale e agency delle soggettività nel fenomeno.
Questo studio esplora le pratiche di sexting delle soggettività giovani adulte queer (18-35 anni) in Italia impiegando metodologie di ricerca creative, tra cui workshop di fanzine, in parallelo con focus group esplorativi e interviste in profondità con tecniche di body mapping, per indagare le intersezioni tra intimità digitale, corpo e soggettività queer.
In un quadro metodologico in linea con una tradizione trasformativa, l’approccio dello studio sottolinea il valore della ricerca partecipativa e art-based nel cogliere le sfumature dell’intimità digitale, considerando anche gli aspetti etici della stessa ricerca, co-costruendo il Research Brave Space. Research Brave Space (RBS) è qui proposto come posizione metodologica etica in una ottica trasformativa che fornisce uno spazio in cui vengono accolte le possibilità e le dissonanze che potrebbero essere incontrate durante la ricerca. Questo approccio abbraccia l'etica della cura nella ricerca qualitativa, consentendo una co-produzione coraggiosa di conoscenza.
Integrando questo tramite metodologie creative, lo studio contribuisce a dibattiti più ampi sul consenso, l’agency digitale e la relazionalità queer, promuovendo una comprensione del sexting che vada oltre il rischio, riconoscendone invece il potenziale trasformativo ed emancipatorio per le soggettività. I risultati sono stati analizzati tramite analisi tematica, per focus group e interviste, e con analisi socio-semiotica multimodale per i contributi di fanzine e body mapping.
Nella ricerca, il sexting è concettualizzato dai partecipanti come una pratica consensuale e relazionale, basata sulla fiducia e sulla reciprocità, invece di uno scambio di contenuti sessuali mediato dalla tecnologia. Questa prospettiva sfida le comprensioni ciseteromononormative della sessualità, riconoscendo il sexting come un mezzo di auto-esplorazione, negoziazione identitaria e costruzione dell’intimità, che si estende oltre le tradizionali relazioni diadiche e le concezioni normative del corpo.
I risultati indicano che il sexting funge da estensione dell’intimità fisica, consentendo alle persone queer di esplorare desideri, formare e rinforzare legami relazionali e costruire forme alternative di espressione sessuale in divenire. Viene sottolineato il ruolo fondamentale del consenso nelle pratiche di sexting, rifiutando l’idea che l’intimità digitale sia intrinsecamente rischiosa o scollegata dalle esperienze corporee.
I contributi della fanzine offrono ulteriori elementi sulle dimensioni relazionali e politiche del sexting, illustrandone il ruolo nel sovvertire le aspettative normative e nel favorire l’agency e formazione di soggettività queer all’interno di ambienti digitali.
Attraverso interviste in profondità con soggettività queer cisgender e gender diverse (trans/non-binary/gender-queer, ecc.), il sexting viene concettualizzato come uno strumento che permette l’interazione tra la fisicità del corpo e le sue dimensioni digitali, facilitandone la comprensione nel suo sviluppo.
Questa ricerca evidenzia come il sexting non sia solo un mezzo di comunicazione intima, ma una pratica che intreccia desiderio, identità e relazionalità queer all’interno dei processi di crescita e formazione delle soggettività giovani adulte. Il sexting viene vissuto non solo come uno spazio di esplorazione e affermazione di sé, ma anche come una pratica che accompagna le trasformazioni identitarie nel tempo, adattandosi alle esperienze e ai percorsi di vita delle generazioni queer. In questo senso, il sexting si configura come un elemento dinamico delle culture giovanili, contribuendo a ridefinire le concezioni dell’intimità, del corpo e delle relazioni in un contesto digitale in evoluzione.
Il corpo accelerato: retoriche della cura di sé tra performatività, mercificazione e controllo del tempo
Maria Angela Polesana, Elisabetta Risi
Università IULM Milano, Italia
L’accelerazione dei ritmi di vita e l’urgenza della performatività si inscrivono nelle pratiche quotidiane attraverso una retorica che annulla le distinzioni tradizionali tra le età della vita (giovinezza, età adulta, vecchiaia), imponendo a ogni generazione una costante tensione verso l’efficienza e l’auto-ottimizzazione. In questo scenario, i social media, e in particolare Instagram, si configurano come dispositivi biopolitici che modellano la narrazione del corpo attraverso un’estetica della salute e della produttività.
Attraverso un’analisi qualitativa del contenuto di un campione di 380 immagini raccolte su Instagram (nel primo trimestre 2025) mediante hashtag specifici (quali #salutebenessere, #benesserefemminile, #wellness, #wellnessjourney), la ricerca che abbiamo svolto evidenzia come il corpo—monitorato, performante, in salute e apparentemente immortale—diventi una risorsa strategica per il mercato, in cui la cura di sé non è più un’esperienza di consapevolezza, ma un imperativo rapido e prescrittivo, un pharmakon che risponde alla logica dell’efficacia immediata.
Il corpo femminile, in particolare, emerge come un campo privilegiato di questa regolazione, sottoposto a un’intensa narrazione disciplinante che lo rende oggetto di consumo e strumento di valore produttivo, persino al di fuori della sfera lavorativa. Terapie ormonali, integratori, programmi di allenamento e consigli su come evitare l’invecchiamento delineano un racconto pervasivo in cui il controllo di sé diventa sinonimo di successo e adeguatezza sociale.
In questo quadro, il tempo dedicato alla cura del corpo non è più un momento di pausa o di relazione, ma si configura come uno spazio mercificato, parte della logica neoliberale che esige un sé sempre performante e ottimizzato. Il corpo, modellato dai canoni estetici dominanti, diventa un elemento chiave nei meccanismi produttivi, al pari della conoscenza e dell’esperienza accumulata nella vita extra-lavorativa, capaci di generare valore aggiunto (Morini, 2010). La richiesta costante di cura da parte dei dispositivi produttivi influenzano direttamente le pratiche di auto-cura, che si traducono in medicalizzazione cronica (antidolorifici quotidiani), obbligo estetico (bella presenza) e potenziamento fisico (palestra forzata, integratori per il benessere) (Cavicchioli, Paravagna, Vignola, 2012). Come già avevano evidenziato Morini (2010, 2012) e Benasayag (2010), la salute non è solo un obiettivo, ma un dispositivo di governo che plasma le soggettività, indirizzandole verso pratiche di sorveglianza e automonitoraggio.
L’analisi del campione di immagini Instagram mette in luce come, nell’ecosistema digitale, lo storytelling del benessere enfatizzi soluzioni rapide e prescrittive, rendendo la cura di sé un atto di conformità più che di autodeterminazione. I testi contenuti nelle immagini analizzate, si rivolgono a delle audience/soggettività chiamate a massimizzare il proprio tempo, interiorizzando l’auto-sfruttamento e trasformando ogni ambito della vita— compreso quello del benessere— in uno spazio di incessante ottimizzazione e valorizzazione (Chicchi, Simone, 2017), in linea con le logiche neoliberali e con i processi di sussunzione connessi al biocapitalismo (ossia a vantaggio del sistema capitalistico di aziende farmaceutiche, professionisti medici o del fitness) (Codeluppi, 2015). In questo modo, il corpo diventa merce e macchina produttiva, ridefinendo la relazione tra tempo, età e identità nell’era della performatività continua.
Quando "Breast is Bad". La critica all'ideale del "Breast is Best" nei social media italiani
Elena Ceccarelli
Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia
Gli spazi digitali dedicati alla genitorialità sono oggi il principale terreno di scontro delle mommy wars, dove l’abbondanza di informazioni disponibili alimenta un clima di reciproca sorveglianza tra genitori e intensifica i conflitti sulle pratiche educative (Abetz, Moore, 2018). In questo contesto di crescente polarizzazione, il dibattito sull'allattamento emerge come tema particolarmente divisivo. La contrapposizione emerge tra chi aderisce alle raccomandazioni sanitarie ufficiali a sostegno dell'allattamento al seno e chi rivendica la libertà di scelta a tutela del benessere materno. Il principio medico-scientifico del breast is best contribuisce a definire uno standard genitoriale normativo che iper-responsabilizza le madri, generando sensi di colpa in chi non allatta (Murphy, 1999). Questo contributo analizza il profilo Instagram Mamme a Nudo come esempio di contronarrazione che si oppone a questo paradigma. Il lavoro metterà in luce come tale contronarrazione possa, tuttavia, riaffermare, seppur in forme diverse, una nuova normatività materna attraverso le modalità comunicative adottate sulla piattaforma social.
Mamme a Nudo si inserisce in un ampio contesto di critica alla maternità intensiva (Hays, 1996), di cui l’allattamento al seno, per il suo carattere impegnativo, costituisce una pratica chiave. Questo modello impone alle madri di dedicare ingenti quantità di tempo, risorse ed energie alla crescita dei figli, affidandosi agli esperti per prendere le migliori decisioni (Ennis, 2014). La dipendenza dal sapere esperto (Giddens, 1990) nella scelta del tipo di allattamento è accentuata nell’odierna società del rischio (Beck, 1992), che attribuisce alle madri un ruolo centrale nella gestione delle incertezze e dei pericoli per la salute infantile – inclusi i rischi connessi all’alimentazione (Afflerback et Al., 2013). Definendo l’uso del latte artificiale una pratica rischiosa, il discorso medico-scientifico consolida l'allattamento al seno come standard della buona maternità (Knaak, 2010; Murphy, 2000). Le madri che ricorrono alla formula sono dunque chiamate a giustificare tale decisione, negoziando fra gli imperativi della maternità intensiva e le loro esigenze quotidiane per preservare l’immagine di buona madre (Faircloth, 2010; Lee, 2008; Marshall et Al., 2007).
All’interno del quadro delineato, questo lavoro intende rispondere ai seguenti quesiti: (RQ1) In che modo Mamme a Nudo articola la critica al discorso medico-scientifico dominante sull’allattamento, e attraverso quali pratiche affettivo-discorsive viene legittimato l'uso del latte artificiale? (RQ2) In che misura tale critica ristabilisce una normatività materna? (RQ3) In che modo la critica di Mamme a Nudo alle raccomandazioni sanitarie ufficiali, attraverso l'esibizione di studi scientifici alternativi, finisce per riaffermare l’autorità del sapere medico e consolidare il paradigma del rischio, continuando a iper-responsabilizzare le madri?
Le domande di ricerca saranno indagate tramite il metodo dell’etnografia digitale (Hine 2015), prendendo in esame i contenuti sull’allattamento di Mamme a Nudo e contestualizzandoli all’interno del progetto. L’analisi parte dall’ipotesi di Pedersen e Lupton (2016), secondo cui gli spazi online dedicati alla maternità sono comunità di sentimento, dove le madri, attraverso pratiche affettive (Wetherell, 2012), costruiscono collettivamente le proprie idee di genitorialità (RQ1). Tuttavia, in un contesto di competizione e parent-blaming (Jensen, 2018), pratiche affettive come l'uso ironico del beta mothering (Syler, 2008) possono emergere come meccanismi per gestire il conflitto emotivo tra le proprie scelte e l’ideale della maternità intensiva (Jensen, 2013). La critica di Mamme a Nudo al principio del breast is best potrebbe rispondere a una simile necessità affettiva: deviare consapevolmente dalla norma dimostrando comunque la propria competenza genitoriale ma, al tempo stesso, riaffermando implicitamente il modello materno dominante (RQ2). Infine, il profilo rafforza la propria posizione attraverso studi scientifici che contraddicono le raccomandazioni mediche ufficiali. Si ipotizza, quindi, che Mamme a Nudo riformuli il concetto di rischio, includendo il benessere materno come variabile chiave, pur rimanendo all’interno dello stesso paradigma iper-responsabilizzante da cui vorrebbe allontanarsi (RQ3).
La resistenza algoritmica come strumento di lotta contro la violenza di genere online e offline
Mariacristina Sciannamblo1, Valentina Fedele2, Chiara Carbone3, Fabrizio Di Buono1, Cosimo Marco Scarcelli3
1Sapienza Università di Roma, Italia; 2Link Campus University; 3Università degli Studi di Padova
L’obiettivo dell’intervento è analizzare la violenza di genere digitale in Italia da una prospettiva transfemminista, identificando quali sono le forme di violenza di genere digitali, verso chi sono dirette, le strategie di contrasto intraprese e le possibili azioni da intraprendere. Punto di partenza dell’analisi è che la violenza digitale di genere, declinata nelle sue diverse forme (Henry et al. 2020), può essere contrastata più efficacemente attraverso pratiche che nascono dalla riflessione femminista sulla non neutralità delle tecnologie e dei network sociotecnici, inquadrando le modalità di resistenza al potere delle piattaforme, anche attraverso una resistenza algoritmica e ai sistemi di classificazione (Bonini e Treré, 2024; D’Ignazio e Klein 2023).
Considerando queste premesse, l’analisi interseca due prospettive rispetto a tali forme di resistenza, una radicata nella riflessione sull’impatto delle comunicazioni digitali sulla dimensione temporale, l’altra nella continuità tra spazio digitale e fisico. Come sottolinea Jucker (2003), la comunicazione internet-based è caratterizzata da una nuova articolazione del sincrono e dell’asincrono. Le tecnologie espandono la potenzialità di comunicazione sincrona, riarticolando il linguaggio con forme scritte, verbali e visuali. Tuttavia, il messaggio resta disponibile per un tempo maggiore, agendo a distanza di tempo su chi lo riceve/visualizza, rispetto al momento in cui è agita l’intenzione di chi lo invia. Pertanto, il messaggio può essere oggetto di ricezioni multiple, modificato e cambiato in momenti diversi del proprio quotidiano, espandendo il proprio impatto temporale, in quanto svincolato dalle tradizionali restrizioni fisiche.
Tale forma di espansione temporale e dematerializzazione della comunicazione agisce sulla seconda prospettiva di analisi rispetto alla violenza digitale. Molti studi sottolineano come quest’ultima comporta ripercussioni sui corpi di chi ne è vittima, evidenziando una continuità sociale e simbolica tra lo spazio digitale e quello fisico (Wilding & Critical Art Ensemble, 1998). Pertanto, i corpi stessi sono da considerarsi portatori di messaggi – dunque strumento di ri-materializzazione del messaggio – e al contempo spazi di lotta e territori di azione (Spíndola Zago, 2017), che intersecano spazi online/offline. Queste forme incorporate di resilienza e empowerment possono essere indagate da una prospettiva transfemminista delle tecnologie (Peña e Varon 2020; Fischetti e Torrano, 2024), consentendo l’identificazione di un discorso dominante della costruzione dell’identità e delle relazioni di genere online. Se le piattaforme, infatti, possono facilitare e dilatare nel tempo e nello spazio la violenza di genere e la perpetrazione di modelli relazionali egemoni e violenti, esse possono contribuire a contrastare le diverse forme di violenza di genere digitale, attraverso strategie di decostruzione in chiave transfemminista, che interrogano la modalità di sviluppo delle tecnologie e le resistenze corporali ed algoritmiche, sfidando i limiti del modello tecnologico dominante.
A partire da tali considerazioni, il contributo intende presentare e discutere i risultati preliminari emersi dalle analisi di 40 interviste qualitative condotte sul territorio nazionale nell’ambito del PRIN “Gendering Internet. Violence, Resilience and Empowerment in digital spaces - GIVRE”, il cui obiettivo principale è indagare le diverse forme di violenza di genere abilitate da tecnologie digitali e di esplorare le pratiche di resilienza, resistenza e autodeterminazione elaborate dagli/lle utenti. Le interviste hanno coinvolto un insieme diversificato di utenti in termini di identità di genere, orientamento sessuale, fasce anagrafiche, collocazione geografica e titolo di studio. L’analisi tematica ha permesso di rilevare: le abitudini online degli/lle utenti, l’esposizione alla violenza di genere (con uno sguardo anche alle differenze generazionali), le diverse forme di violenza sul web, quali hate speech a sfondo sessista, omofobo, misogino, dick pic, sexual harrassment, e le modalità di resistenza e contrasto tanto individuali quanto collettive al potere delle piattaforme, nel quale si radica la produzione stessa della violenza digitale.
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