Programma della conferenza

VII “Non c’è più tempo!” Crisi ed emergenze nella società contemporanea / Cagliari, 19/20 giugno 2025

In un’epoca segnata da crisi ricorrenti e da un senso di urgenza perpetua, il concetto di tempo emerge come una lente imprescindibile per analizzare e comprendere la società contemporanea. Il convegno SISCC 2025, organizzato dalla “Società Scientifica Italiana di Sociologia, Cultura e Comunicazione”, intende riflettere sulle molteplici declinazioni del tempo nel contesto delle crisi odierne, esplorando come l’accelerazione dei ritmi di vita e la proliferazione delle emergenze stiano ridefinendo dimensioni fondamentali dell’educazione, della comunicazione e della vita quotidiana.

 
 
Panoramica della sessione
Sessione
Sessione 2 - Panel 08: Scuola, università e sistemi educativi
Ora:
Giovedì, 19/06/2025:
15:15 - 17:15

Chair di sessione: Roberto Serpieri
Luogo, sala: Aula 11 (A0-B)

Piano terra. Edificio A (Palazzo Baffi) Campus Sant'Ignazio. Via Sant'Ignazio da Laconi, 74 (CA)

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Presentazioni

Innovazione Sociale in Accademia: riflettere su Fast e Slow Academia attraverso la produzione di artefatti

Giulia Ganugi1, Martina Visentin2

1Università di Bologna, Italia; 2Università di Padova, Italia

La cultura accademica contemporanea esige habitus rapidi e frenetici, spesso espressi attraverso metafore quali il celebre publish or perish, che enfatizzano la performance, i risultati e l’efficienza ai massimi livelli (Boynton 2021). Il declino del principio di acquisizione lenta della conoscenza rivela sempre più un’università dominata da accelerazione sociale e logiche mercantili, piuttosto che un’istituzione culturale capace di incarnare lentezza, profondità e riflessione (Eriksen e Visentin 2024). Le principali conseguenze sono la standardizzazione, l’eccesiva attenzione ai risultati quantitativi (Pardo-Guerra 2022), gli effetti sulla salute mentale e sul benessere degli accademici (Evans et al. 2017; Levecque et al. 2017; Martell, 2020; Padilla-González e Londoño, D. 2022), le disuguaglianze e la discriminazione nei confronti dei gruppi vulnerabili (Ahmed 2012). Tra questi, le donne sono una delle categorie più colpita dall’accelerazione accademica subendo frequentemente pratiche di sfruttamento e ingiustizia, che causano episodi o periodi di abuso (o auto-abuso: Coin 2018), precariato, quitting e disturbi di salute mentale (Coin 2017; Osbaldiston et al. 2019; Minello 2021).

Come reazione, si sono sviluppate molte ricerche e riflessioni critiche afferenti agli studi femministi e di genere che si concentrano sulla Slow Academia e i concetti di cura collettiva, collaborazione e fiducia (Mountz et al. 2015; The Care Manifesto 2020; Bali e Zamora 2022). Vi sono poi ricerche sull’innovazione sociale nel settore educativo (Elliott 2013; Loogma et al. 2013; Benneworth e Cunha 2015; Rivers et al. 2015; Schröder e Krüger 2019; Kumari et al. 2020; Behrend et al. 2022), che invece riguardano varie pratiche di insegmanento, ricerca e comunicazione, accomunate dall’obiettivo di democratizzare l’accesso alla conoscenza, ridurre le discriminazioni legate alla disuguaglianza sociale degli studenti e combattere il divario di genere. Infine, soprattutto a seguito della pandemia da Covid-19, sono aumentate esperienze di pratiche alternative al lavoro accademico (Byron 2021; Gachago et al. 2021, Ganugi e Marocchini 2025) con l’obiettivo di connettere accademici appartenenti a contesti territoriali e universitari diversi, diffondendo un approccio più sostenibile al lavoro.

Gli approcci slow e fast non sono necessariamente escludenti. È possibile trovare un equilibrio tra i due, adottando pratiche che favoriscano sia la produttività che il benessere. La scelta tra i due dipende spesso da contesto istituzionale, disciplina di riferimento, posizione accademica ricoperta e scelte individuali. Questo contributo mira a riflettere su queste pratiche, indagando il significato del lavoro accademico per le donne e l’impatto che gli eventi della vita hanno sulla loro carriera accademica e sulla conciliazione vita-lavoro. Un ulteriore obiettivo è favorire una riflessione critica e un discorso collettivo riguardo al lavoro in accademia, mostrando i diversi approcci possibili e la necessità di includerli e accettarli.

Elaborando la letteratura presentata e altri lavori in cui le autrici sono parallelamente coinvolte, viene presentato un progetto di ricerca che raccoglie storie individuali e riflessioni collettive, applicando una tecnica creativa di ricerca sociale, basata sulla produzione di artefatti (Makela 2007; Giorgi et al. 2021). Nel corso del 2025, questa tecnica viene applicata allo svolgimento di più workshop, coinvolgendo donne in diversi ruoli accademici. La produzione di artefatti permette di attivare strategie di comunicazione non basate sulla parola, permettendo alle partecipanti di acquisire consapevolezza riguardo alla propria condizione ed esprimere aspetti personali, anche emozionali, in un contesto diverso da quello di un’intervista o focus group tradizionali, che rischierebbero di riprodurre le stesse relazioni di squilibrio esperite in accademia (Caretta e Vacchelli 2015; Vacchelli 2017).

I risultati dei workshop riportano informazioni sulle storie di vita di accademiche donne e, allo stesso tempo, dati su pratiche accademiche socialmente innovative, contribuendo a un cambiamento culturale, che richiede un ripensamento di priorità e pratiche consolidate, ma che potrebbe portare a un’accademia più inclusiva, creativa e socialmente responsabile.



Alla ricerca di un percorso di vita. Universitari tra studio e lavoro

Andrea Casavecchia

Università di Roma Tre, Italia

Il paper presenta i primi risultati di una ricerca sul percorso dei giovani universitari, rilevati attraverso l’osservazione dei loro comportamenti e orientamenti e della loro progettualità. Un’attenzione specifica è stata rivolta a quanti di loro conciliano studio e lavoro.

Nella loro esperienza universitaria, i giovani tendono a provare esperienze lavorative in alcuni casi anche con l’effetto di ritardare la conclusione del percorso di studi o di interromperlo del tutto (Triventi e Trivellato 2015). La figura dello studente lavoratore diventa sempre più presente anche in conseguenza dell’introduzione di forme di didattica integrata fruibile che da un lato ha stravolto il “ritmo accademico” (Colombo, Poliandri, Rinaldi, 2020), dall’altro lato può migliorare l’offerta esistente integrando metodologie e linguaggi d’insegnamento (Salmieri, Visentin, 2020).

Tuttavia il sistema dell’educazione terziaria non ha modificato la sua struttura tradizionale, così la policy legata alla centralità degli studenti rimane spesso un esercizio di retorica (Harvey 2018). A dispetto del dibattito sulla qualità dell’insegnamento universitario in Europa (Keeling 2006) e del sistema di qualità introdotto dal processo di Bologna che invita a promuovere la missione accademica della didattica con una specifica attenzione (Marra, Moscati 2018). La resistenza al cambiamento è da attribuirsi alla chiusura verso metodologie di insegnamento, alla scarsa condivisione e pianificazione delle attività didattiche (Pompili, Viteritti 2020) alla crescente burocratizzazione e alla marginalità del peso specifico della didattica nella costruzione delle carriere accademiche (Normand 2016).

L'indagine sul campo raccolgie interviste somministra questionariI agli studenti del Dipartimento di Scienze della Formazione dell'Università di Roma Tre. I risultati della ricerca si confrontano con il modello di integrazione accademica (Tinto 1997, Braxton et al. 2005, Larsen et al. 2013). L'analisi rileva l’importanza per gli studenti di costruire reti di relazione tra colleghi e con i docenti per proseguire il percorso universitario e orientarsi nella loro progettualità vocazionale in modo di «accrescere la conoscenza della propria specifica vocazione professionale in armonia con la vita sociale e biografica» (Dewey 2020).



Artefatti digitali e pratiche quotidiane. Adolescenti, dirigenti, genitori e insegnanti a confronto

Alba Francesca Canta1, Linda Tonolli1, Viktoria Konidari2, Alvise Mattozzi1

1Politecnico di Torino, Italia; 2Hellenic Open University, Grecia

Come afferma Judy Wajcman (2015) “il tempo, a quanto pare, è un bene prezioso” e in una società dell’accelerazione ci si confronta con una costante percezione che ci sia “carestia” di questo bene e che la vita di oggi sia più veloce di quella di un tempo. In questa accelerazione e alienazione (Rosa 2015), i social media e, più in generale, le tecnologie digitali si sono radicate sempre più come strumenti abituali di comunicazione, interazione sociale e apprendimento, mediando non solo la vita quotidiana delle nuove generazioni ma, inevitabilmente, anche di quelle più anziane. Molteplici campi sociali, tra cui quello della scuola, vengono integrati dentro sistemi digitali, che se da un lato cercano di semplificare le relazioni, dall’altro ne aumentano la complessità (Albanese 2015).

Il presente intervento muove da una serie di interviste strutturate condotte nell’ambito del progetto Europeo Erasmus+ DRONE (Teacher & school leaders training to promote Digital liteRacy and combat the spread of disinfOrmation among vulNerable groups of adolEscents) e rivolte a dirigenti e collaboratori/trici, professori e professoresse, studenti e studentesse e genitori/trici con l’obiettivo di indagare le dinamiche di digitalizzazione nelle scuole secondarie di secondo grado.

Queste interviste consentono di cogliere differenti prospettive riguardo la digitalizzazione in relazione con i tempi di vita e di lavoro all’interno delle scuole.

Nel caso dei/delle dirigenti, per esempio, emerge la complessità di gestione di differenti tempi che la scuola superiore richiede, tra le emergenze quotidiane e la pianificazione sul medio-lungo periodo.

Dal punto di vista dei genitori, invece, si evince la complessità di alcuni strumenti digitali utilizzati a scuola che cambiano la relazione con la stessa. Un esempio riguarda il registro digitale, artefatto che genera reazioni discordanti tra i genitori stessi dal momento che per alcuni tale strumento responsabilizza figli/e e li aiuta a essere diligenti, per altri li de-responsabilizza portandoli a una non curanza.

Ancora, nel caso degli/delle adolescenti gli artefatti digitali, come per esempio gli smartphone, diventano parte del loro vivere quotidiano e modificano il loro modo di relazionarsi con differenti mondi, tra cui anche quello scolastico ed educativo. In tal senso, come emerso dalle interviste, se da un lato, gli/le adolescenti utilizzano sempre più gli artefatti digitali per accelerare lo studio e dedicarsi ad altri mondi, dall’altro ci si scontra con alcuni metodi di insegnamento che al contrario ne vietano l’utilizzo, introducendo una contraddizione e tensione costante tra tempi educativi degli insegnanti più scanditi e quelli degli/delle adolescenti più veloci.

L’intervento presente, allora, intende comparare le diverse prospettive nel dettaglio, mettendo in luce quelle che sono le pratiche quotidiane (Shove 2009), così come possono essere desunte dalle interviste, e mettendo in luce il ruolo degli artefatti, in particolare digitali, nel contribuire alle pratiche quotidiane e alle loro tempistiche.



Educare nella “platform society”: tra interessi privati e valori pubblici

Gianna Maria Cappello

Università di Palermo, Italia

Negli ultimi decenni, la scuola (come pure l’università) ha attraversato un lungo e mai concluso processo di “crisi” in nome del quale sono state condotte una serie di riforme sempre più chiaramente integrate all’interno di un progetto neo-liberista di economia e società, i cui principi emergono nell’enfasi sul paradigma delle competenze, della competizione, della scelta scolastica e della valutazione come classificazione, un paradigma che si contrappone strutturalmente a ogni modello di educazione e istruzione intesa come promozione dell’uguaglianza, del pluralismo, della partecipazione e della salvaguardia della diversità, (Cappello, Pitzalis, in corso di stampa). L’affermazione di questo paradigma ha creato enormi opportunità di profitto per il settore dell’edu-business tecnologico, ridefinendo di fatto l’esperienza educativa e il significato stesso dell’insegnamento e dell’apprendimento oggi. L’effetto combinato degli investimenti crescenti delle grandi aziende della Rete nel settore educativo (amplificati durante la pandemia Covid) e dei processi di riforma neo-liberisti ha portato alla crescita di un enorme mercato di consumo per hardware, software e servizi online, indirizzando le politiche educative verso soluzioni ed-tech che generano enormi quantità di Big Data e nuove opportunità di profitto su larga scala.

Ispirandosi all’ideologia del dataismo (Van Dijck, 2014), i policymakers in molti settori di servizio pubblico – sanità, welfare, istruzione – condividono la convinzione che i Big Data offrano una forma superiore di intelligenza e conoscenza, capace di generare intuizioni prima impossibili, con un'aura di verità, obiettività e accuratezza, tanto da poter essere considerati come ‘the holy grail of behavioural knowledge. Data and metadata culled from Google, Facebook, and Twitter are generally considered imprints or symptoms of people’s actual behaviour or moods, while the platforms themselves are presented merely as neutral facilitators’ (Van Dijck, 2014, p. 199, corsivo in originale).

Sebbene si possa discutere se questi sviluppi siano intrinsecamente sbagliati o realmente innovativi, le domande che questo contributo intende affrontare, proponendo l’analisi di alcuni casi di studio in particolare, riguardano la deriva mercificante originata dalla crescente integrazione dell’edu-business tecnologico nell'istruzione, una deriva che ha portato a un’evidente (e forse irreversibile) dipendenza da soluzioni tecnologiche proprietarie, a scapito di soluzioni open source, che consentano l’uso, il riutilizzo e l’adattamento gratuito dei materiali educativi, evitando di dipendere dalle piattaforme digitali di aziende private (Williamson, 2017; Landri, 2018; Selwyn, 2019).

Ciò richiama l’attenzione su aspetti critici relativi, per esempio, alla professione e al ruolo sociale dell’insegnante o alla dataveillance, ossia il monitoraggio e il tracciamento costante degli attori coinvolti (insegnanti, alunni, genitori, personale amministrativo, ecc.) mentre interagiscono negli ambienti online (. Ancora più critica è la (ri)definizione del concetto stesso di educazione e la contrapposizione di valori come Bildung versus skills, educazione versus learnification, autonomia degli insegnanti versus automatizzazione dei processi di insegnamenti e valutazione (i cosiddetti teacher bots), istituzioni pubbliche versus piattaforme private. Tutto questo solleva importanti questioni etiche relative a quattro aspetti interconnessi:

(a) come questi attori modificano e autoregolano il proprio comportamento (consapevolmente o meno) per conformarsi agli standard stabiliti dagli algoritmi;
(b) l’asimmetria di potere e controllo tra utenti e proprietari delle piattaforme;
(c) la necessità di tutelare la privacy dei dati e garantire trasparenza sull’uso che ne viene fatto;
(d) il modo in cui i dati "ritraggono" le identità e le performance delle persone e l’impatto che questo ha sulla loro carriera e vita pubblica.



IA ed Educazione: Un'Indagine Qualitativa sulle Percezioni e l'Uso tra gli Studenti Universitari

Claudio Melchior, Manuela Farinosi

Università di Udine, Italia

L’Intelligenza Artificiale Generativa (GenAI) sta assumendo un ruolo sempre più centrale nell’istruzione superiore, sollevando interrogativi di natura etica, regolatoria ed educativa sul suo impatto nelle varie attività accademiche e nei processi di apprendimento. Sebbene questi strumenti offrano potenziali opportunità per la didattica, resta ancora poco indagato il modo in cui gli studenti li percepiscono e li integrano nella loro quotidianità. Gli studi esistenti si focalizzano principalmente su approcci di tipo quantitativo, trascurando invece quelli di tipo qualitativo, che invece, per loro stessa natura, potrebbero contribuire a fornire un quadro più approfondito delle effettive esperienze, percezioni e motivazioni degli studenti.

Per colmare questa lacuna, il presente contributo analizza l’uso della GenAI tra gli studenti universitari attraverso interviste semi-strutturate (N=137) condotte con iscritti a diverse università italiane, prevalentemente situate nel nord-est. Il campione è composto da 85 studentesse, 51 studenti e una persona che si identifica con un genere non binario. Per quanto riguarda il livello di studi, 75 intervistati sono iscritti a un corso di laurea triennale, 52 a una laurea magistrale e 8 a un corso a ciclo unico, mentre due non hanno specificato il proprio percorso accademico.

Gli obiettivi conoscitivi del presente studio sono: 1) indagare le motivazioni personali che influenzano l’adozione o il rifiuto della GenAI; 2) esplorare le opportunità e i rischi percepiti legati all’uso nel contesto universitario; 3) analizzare il ruolo delle istituzioni accademiche, tra divieti e regolamentazioni; 4) valutare le implicazioni più ampie della GenAI sulla società, sul mondo del lavoro, sulla creatività e sul pensiero critico.

Attraverso domande filtro sono stati individuati tre gruppi di rispondenti: quelli che utilizzano GenAI per attività universitarie (n=73); quelli che la usano esclusivamente per attività personali (n=29); quelli che non la utilizzano (n=35). Le trascrizioni delle interviste sono state analizzate attraverso una codifica manuale, supportata dal software MaxQDA, per individuare e organizzare i temi emergenti.

L’analisi ha rivelato differenze significative tra i tre gruppi in termini di percezione, utilizzo e impatto di GenAI. Coloro che la utilizzano per attività universitarie la considerano una risorsa utile per migliorare l’efficienza, la gestione del tempo e la ricerca informativa. La impiegano per ricerche, chiarimenti, riassunti, correzione grammaticale, traduzioni, generazione di idee per paper e tesi, e per creare presentazioni e contenuti grafici. Nonostante riconoscano i rischi e la fallibilità del sistema, la vedono come un'opportunità per il futuro accademico e professionale, auspicando che l’università fornisca linee guida chiare anziché limitarne l’uso.

Gli studenti che dichiarano di utilizzare GenAI, ma non per l’università, ne apprezzano il valore per attività quotidiane (creatività, generazione di contenuti, intrattenimento), tuttavia sono cauti riguardo al suo utilizzo accademico, principalmente per motivi etici, di “orgoglio personale” o scarsa utilità percepita. Sebbene abbiano opinioni incerte sull’impatto dell’IA sul lavoro e sulla società, temono una riduzione del pensiero critico, disinformazione e omologazione, e auspicano una regolamentazione che promuova un uso etico e consapevole.

Gli studenti che non utilizzano l’IA lo fanno prevalentemente per mancanza di necessità percepita, sfiducia nel sistema, motivi etici, preferenza per metodi tradizionali, mancanza di conoscenza o interesse. Pur considerando un possibile utilizzo futuro, esprimono generalmente una visione scettica. Richiedono restrizioni o divieti nel contesto universitario e temono che l’AI possa avere impatti negativi su società, arte, creatività, cultura, lavoro e pensiero critico.



 
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