Programma della conferenza

V Convegno Nazionale SISCC “Mondi possibili. Tra crisi, conflitti e pratiche creative” / Bari, 22-23 giugno 2023

Il convegno della SISCC intende esplorare le complesse relazioni fra crisi e pratiche creative, il corto-circuito fra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale nonché le potenzialità delle nuove pratiche creative e culturali di disegnare nuovi scenari e ipotizzare nuovi mondi possibili. Per andare oltre il paradigma della crisi e della emergenzialità, bisogna pensare e operare in modo nuovo senza rispondere a crisi con crisi e a emergenze con post-emergenze. Quali fenomeni di questo tipo sono oggi visibili?

 
 
Panoramica della sessione
Sessione
Sessione 1 - Panel 5: Pratiche creative e immaginari religiosi nella comunicazione pre-moderna: un approccio storico-mediologico
Ora:
Giovedì, 22.06.2023:
14:00 - 15:30

Chair di sessione: Giovanni Ragone
Luogo, sala: Aula 20

Secondo piano, Dipartimento di Scienze Politiche Palazzo Del Prete, P.zza Cesare Battisti 1

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Presentazioni

Pratiche creative e immaginari religiosi nella comunicazione pre-moderna: un approccio storico-mediologico

Stefano Cristante1, Fabio Tarzia2, Donatella Capaldi2, Sergio Brancato3, Giovanni Ragone2

1Università del Salento, Italia; 2Università di Roma "La Sapienza"; 3Università di Napoli "Federico II"

Pratiche creative e immaginari religiosi nella comunicazione pre-moderna:

un approccio storico-mediologico

Si ha spesso la sensazione che la nostra epoca storica si presenti ai propri contemporanei con i caratteri di un periodo completamente inedito, quasi stesse “avvenendo” senza poggiare su contesti derivabili anche dalle problematiche di altre epoche (Prosperi 2021; Germinario 2017). Questa sensazione, ingenerata da fattori evidenti come l’accelerazione tecnologica promossa dal digitale (Rosa 2015) e dalla connessione interindividuale attraverso nuove tipologie di media, rischia di proiettare l’umanità in una forma di autoriflessione parziale e paradossale, perché se da un lato non può che risultare incompleta una visione incatenata al determinismo (compreso quello tecnologico), dall’altro l’autopromozione tecnologica della nostra epoca si deve misurare con gigantesche crisi radicali, rappresentate dal mutamento del clima e dell’ambiente (Malm 2021; Latour 2018), dalle disuguaglianze economiche e sociali (Alacevich e Soci 2019), dalle difficoltà crescenti dei regimi politici democratici (Crouch 2003; Campanella 2020). L’aspetto paradossale della nostra condizione è che vivere nell’accelerazione sta ridimensionando proprio l’idea di futuro come luogo metaforico delle opportunità: schiacciati nel nostro perenne presente guardiamo con apprensione un orizzonte che sembra aver abbandonato gran parte del proprio fascino (su questa base si innestano le riflessioni retrotopiche dell’ultimo Bauman, 2017).

Il percorso di discussione che proponiamo su questi temi è di accompagnare l’osservazione e la riflessione sui mondi possibili che continuano a manifestarsi ai nostri giorni (proprio nel mezzo di crisi e conflitti) con un recupero di attenzione verso alcuni momenti di svolta della storia comunicativa del passato. In realtà l’incontro tra sociologia e storia non è certo una novità nell’ambito delle scienze sociali, e tuttavia la sociologia dei processi culturali e la storia della comunicazione potrebbero rivelarsi capaci di imbastire un dialogo proficuo su alcune fasi storiche in cui si è manifestata un’istanza di “mondi possibili” all’interno di crisi e conflitti determinati, veicolati da pratiche creative di vario genere.

Da questa visuale, la distanza tra il nostro presente e gli eventi/snodi passati che proponiamo di prendere in esame in questo panel non solo non rappresenta un impedimento a stabilire dei nessi problematici tra le epoche, ma ci aiuta a cogliere un fenomeno spesso poco considerato nei nostri ambiti disciplinari, vale a dire che i fatti e i processi comunicativi hanno sempre svolto un ruolo decisivo nella costruzione delle società e nelle fasi di trasformazione culturale.

Nella scelta delle proposte di intervento da privilegiare per il panel abbiamo optato per contributi in grado di delineare fenomeni culturali e religiosi appartenenti all’epoca pre-moderna e di trattarne le caratteristiche utilizzando teorie e strumenti appartenenti alla nostra contemporaneità, alla ricerca di forme di messa in comune di aspetti sociali, informativi, letterari ed estetici capaci di intensificare l’indagine sulle forme comunicative e sugli immaginari di epoche diverse. In questo senso abbiamo messo in relazione due questioni appartenenti all’ambito religioso cattolico, la prima incentrata sulle radici francescane e gesuitiche di alcuni filoni ideali che si possono ritrovare alla base dell’enciclica Laudato si’ del 2015, la seconda relativa allo straripante successo editoriale del libro devozionale De Imitatione Christi una volta ripresentato attraverso il medium della stampa a caratteri mobili. Presenteremo inoltre due interventi relativi a pratiche culturali creative di grande momento nella transizione alla piena modernità, come il geniale utilizzo in chiave “retrotopica” degli ideali della cavalleria nel Don Quixote e la gestazione delle tecniche della serializzazione letteraria che hanno portato alla creazione del feuilleton.

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Il mondo nuovo: Francesco, Ignazio e la Laudato si’ di papa Bergoglio. Sociologia degli immaginari e lunghe durate

Fabio Tarzia, Università di Roma "La Sapienza"

Tra il XIII secolo e il XVI secolo emerge dalle profondità della cultura occidentale un potente processo di rinnovamento dell’idea di rapporto tra uomo e mondo. Uno dei motori principali di tale rinnovamento è di matrice squisitamente religiosa e prende le mosse dal Cantico delle creature di Francesco d’Assisi (1224-1226). In questa opera di straordinaria importanza l’idea cristiana del rapporto uomo-mondo viene completamente rovesciata rispetto al passato. Il mondo non è più “regno del Male” o campo di battaglia-terra di nessuno del grande scontro tra Luce e Tenebre, ma manifestazione della creazione divina e della sua presenza nella realtà e nella Storia. In altre parole, il mondo è un medium che mette in comunicazione le creature (e l’uomo insieme ad esse, in una posizione che non è dominante o di conquista) con il Creatore. La folgorante intuizione di Francesco è tuttavia concepita all’interno di un panorama geografico ancora parzialmente chiuso. Nel momento in cui le nuove scoperte geografiche offriranno orizzonti infiniti e la spaccatura della Riforma protestante renderà necessaria una vera e nuova uscita, sarà un Ordine appena fondato (1540), quello gesuitico, a ridisegnare i rapporti col reale di fronte alla prima fase di globalizzazione della modernità. Il mondo diviene così qualcosa di più rispetto al Regno delle creature, specchio del disegno divino da guardare per contemplare l’”Altissimo”. Si trasforma in effettivo spazio di conquista e di conversione, dimensione della missione che deve attraversare le vie della terra alla ricerca di ogni essere disperso per ricondurlo nella giusta direzione. Il francescano è ancora un pescatore di uomini: il gesuita un cacciatore di anime.

Secondo un approccio teorico e metodologico riferibile alla sociologia degli immaginari e dunque al concetto di processo culturale e di lunga durata, questo capovolgimento teologico, ideologico, culturale e simbolico-narrativo fonda dei veri e proprio archetipi, che potremmo sintetizzare nell’archetipo di Francesco e in quello di Ignazio, strettamente collegati e interagenti, pur nella loro specificità. Tale binomio è alla base, e ci permette di leggere dal nostro punto di vista, la seconda Enciclica di papa Bergoglio (Laudato si’: 24 maggio 2015), che, vale la pena ricordarlo, ha scelto il nome di Francesco ma è un gesuita, non un francescano.

L’Enciclica si colloca in un momento storico cruciale. Il problema ecologico, collegato alle potenzialità tecnologiche di trasformazione irreversibile del mondo e delle sue risorse, ha assunto negli ultimi anni, come è ben noto, proporzioni enormi. L’immane processo di globalizzazione all’interno del quale siamo immersi, la decadenza delle Istituzioni tradizionali, la crisi economica e pandemica, la guerra, hanno determinato un generale clima di incertezza (Appadurai, 1996; Castells, 1995 e 1997; Bauman 2011 e 2014; Beck, 2006 e 2009), caratterizzato da un lato dal senso di catastrofe imminente, dall’altro da un movimentismo spesso caotico che propone soluzioni a piccolo e medio termine.

Le proposte appaiono di diverso tipo: 1. Una genericamente movimentista, appunto, che denuncia il disastro e chiede alla politica di intervenire; 2. Una riferibile alle istituzioni che legano la soluzione alla costruzione-utilizzo di nuove tecnologie, sicure ed ecosostenibili; 3. Una terza, infine, apocalittica che vede nell’incapacità umana di intervenire e nella sudditanza rispetto agli interessi economici i segni chiari di un disastro imminente e inevitabile. L’insieme di queste idee non mettono di fatto in discussione l’attuale sistema economico ma pensano semmai ad una pratica di aggiustamenti riformisti.

In questo contesto l’Enciclica bergogliana appare come una presa di posizione potentissima nella discussione corrente perché individua esplicitamente le cause della crisi nel connubio perverso tra tecnologia e finanza, dunque le riferisce chiaramente ad un preciso sistema economico e culturale. Si tratta di una visione assolutamente “innovativa”, anzi si può dire l’unica, vera visione ecologista sistematica e “ideologica”, in quanto non semplicemente mossa da una urgenza individuale o collettiva di sopravvivenza fisica, ma al contrario derivante da una precisa visione del mondo che mette al centro il principio del rinnovamento spirituale in contrapposizione a quello dell’avanzamento economico-materiale.

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Il successo universale del “tono minore” nella letteratura religiosa del tardo-medioevo: il caso del De Imitatione Christi nell’epoca tipografica

Stefano Cristante, stefano.cristante@unisalento.it

Il De Imitatione Christi è un testo religioso che ha avuto una stupefacente fortuna editoriale: scritto in latino, ebbe una prima edizione tipografica in Augusta già nel 1472. Da allora le edizioni (nell’originale latino o in traduzione; prima traduzione italiana: Venezia 1488) si sono succedute a centinaia e centinaia, tanto che a tutt’oggi L’imitazione di Cristo è, dopo la Bibbia, il testo più diffuso del cristianesimo, accolto come testo devozionale non solo dalla Chiesa cattolica, ma anche da quella protestante e da quella ortodossa.

La sua gestazione è tardo-medievale e la sua circolazione avviene grazie al rapido radicarsi della tipografia gutenberghiana in Europa. Il suo autore è ignoto. Da molti secoli (almeno dal XVII) gli studiosi si dividono su figure di possibili autori individuali, dopo che, all’epoca di circolazione del manoscritto, si ipotizzarono attribuzioni antichissime e improbabili, come san Basilio, Agostino e Bernardo. Tramontate queste ipotesi, si ritenne allora che L’Imitazione fosse opera del monaco agostiniano tedesco dalla lunghissima vita Tommaso da Kempis (ca. 1380–1471), conosciuto soprattutto come amanuense. Poi si pensò al teologo francese Jean Charlier da Gerson (1363–1429), noto anche con il titolo di Doctor Christianissimus, che trascorse i suoi ultimi anni di vita in un monastero dei Celestini presso Lione. Infine al benedettino italiano Giovanni Gersen (1243–?), di cui però non si hanno che pochissime informazioni. Negli ultimi decenni sono numerosi gli studiosi che ritengono l’opera un lavoro collettivo, probabilmente emerso da un ambiente monastico certosino tra il XIII e il XIV secolo, come vorrebbe l’anonimato dell’opera, molto praticato come forma di umiltà nella produzione letteraria di quell’Ordine (Bianchi 1986).

L’opera sarebbe stata quindi realizzata nel periodo terminale della lunghissima stagione medievale, quel Basso Medioevo già in transito avviato verso i destini della prima modernità dell’Umanesimo. Il De Imitatione risente quindi di una transizione molteplice: dalle poche versioni manoscritte alle migliaia di esemplari di quelle tipografiche, dall’assimilazione medievale attraverso lettura ad alta voce alla lettura silenziosa post-medievale, dalla reinterpretazione del codice medievale (libro a disposizione del credente di rango) a favore di categorie sociali più ampie grazie all’economicità dell’edizione a stampa.

Per quanto riguarda la disposizione dei contenuti, il libro è organizzato in quattro parti, ciascuna poi suddivisa in brevi capitoli. Lo stile resta in generale semplice ed efficace, con variazioni di genere nella parte terza e quarta, che assumono la forma di un dialogo tra Cristo e il credente. Nell’ultima parte il dialogo si sviluppa soprattutto sul sacramento dell’Eucarestia, i cui temi riecheggiano le dispute tardo-medievali tipiche del XIV secolo. I primi due libri sono invece costruiti secondo stilemi precedenti, che delineano regole di comportamento semplici e ispirate a una sorta di esortazione interiore a seguire l’insegnamento di Cristo soprattutto nella via dell’umiltà. La vita interiore deve agire nell’individuo senza esaltazione, dopo aver adempiuto silenziosamente ai precetti di obbedienza e carità, riuscendo a convivere con la sofferenza. Più che di vero e proprio misticismo si tratta di un insieme di forme di “ascetismo intramondano” alla portata di ogni cristiano, e non è infatti casuale che il De Imitatione Christi abbia mantenuto la sua clamorosa diffusione non solo nella Chiesa ortodossa, ma anche in quella protestante, che di lì a poco si sarebbe contrapposta alla Chiesa di Roma.

Il “segreto” del successo del libro appare quindi contenuto nell’aggiornamento delle modalità di accesso alla letteratura religiosa, sfruttando sino in fondo le opportunità diffusive del nuovo medium della stampa e una nuova prosa anti-intellettualistica, che si allontana sia dal misticismo fiammeggiante medievale sia dalla costruzione filosofica, aprendosi a un “tono minore” (Huizinga 1992: 259), che consente al più umile dei fedeli di “praticare spontaneamente l’esercizio dell’elevazione spirituale” (Braunstein 1985: 519).

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Il cavaliere del tramonto. Don Quixote e la soggettività moderna

Donatella Capaldi, donatella.capaldi@uniroma1.it

Il Don Quixote segna un momento fondativo per la modernità occidentale, se essa si costituisce (seguendo Foucault, 2003) come esperienza - problematica e pratica - di giochi del vero e del falso, mirata a conoscere determinati ambiti oggettivi, costituendo al tempo stesso il sé come soggetto.

In Cervantes la problematicità è assicurata dalla struttura del paradosso e dalla figura della pazzia, entrambe da ricollegare all’insegnamento di Erasmo, fondamentale via d’uscita dall’autocostrizione oppressiva del “campo di gioco” del potere politico, religioso ed economico (Elias, 1969) nell’epoca della formazione degli stati nazionali, delle guerre religiose, dell’accumulo del capitale finanziario. Ma è interessante che la pratica consista nello smontaggio di un ambito oggettivo, consistente nella prima grande ventata di consumi culturali e seriali che l’Europa abbia conosciuto: il romanzo cavalleresco, il genere di consumo più diffuso nel ‘500 in tutta Europa, sul modello dell’Amadís de Gaula (Schaffert, 2015). È su quell’ambito che la potenza della virtualizzazione e la potenza della serialità vengono messe a fuoco.

La geniale operazione del Quixote fu possibile per l’esaurimento evidente e contestuale sia dei meccanismi seriali dei generi cavallereschi, sia dell’immaginario, dell’ambiente mediale e delle funzioni reali della figura del cavaliere.

Il barocco, la grande città (Maravall, 1985), la lettura silenziosa (Chartier, 1995) la nuova tecnica della guerra, la percezione della relazione come scambio ineguale (Serres, 2022) sono le componenti di un cambiamento radicale dell’ambiente dei media, che rottamava o rendeva obsoleto il passato. Un passato di lunga durata: la “materia cavalleresca”, “brettone”, “di Francia”, e “di Roma”, dall’alto medioevo fino al Cinquecento aveva mantenuto una potente capacità di “figurazione”, mentre cambiavano le tecnologie: il ruolo della voce, le tecniche della versificazione, la performance spettacolare con canto e musica, la scrittura, gli usi di corte, la lettura ad alta voce in ambienti di castello, palazzo, o casa artigiana o contadina; e poi la versione in prosa, la stampa, il commercio librario, la traduzione, e così via (Villoresi, 2005). E intorno ai cavalieri si era costituito un gigantesco “luogo” di ibridazione dei linguaggi e degli immaginari: mitologie, celebrazioni, oggetti simbolici, pratiche cortesi, codici dell’amore e dell’amicizia, usi militari, religiosi e sociali. La continua rielaborazione dei meccanismi e della figura dei cavalieri, anche dopo decenni o secoli dalla loro scomparsa dall’arena reale della società, non era solo un esercizio ludico di riuso del passato, ma rispondeva a diversi equilibri e forme del governo del sé, tra l’ambiente cortese e quello cittadino.

Di qui in poi, ci si domanderà quale sia il rapporto tra realtà e immaginario, mentre si accumuleranno conoscenze e competenze sui processi di produzione seriali, che via via verranno considerati più o meno scopertamente come mainstream nella cultura, fino alla riflessione sociologica/mediologica, di cui siamo eredi, dagli anni Venti del Novecento ad oggi.

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Prima della rivoluzione. Origini premoderne del feuilleton e consumi culturali

Sergio Brancato, sergio.brancato@unina.it

Come nascono le figure, i ruoli ed i rapporti sociali che oggi identifichiamo nella relazione tra soggetto e testo? Quando e attraverso quali sostanziali trasformazioni cominciamo a pensarci nei termini di lettori, dunque di interlocutori di scrittori inseriti in un ciclo della merce culturale che “reinventa” il concetto di autore e fonda quello di pubblico?

Per definire il concetto di serialità in letteratura, decisivo nella visione dell’individuo moderno così come in quella del lavoro intellettuale, occorre partire da una dimensione in apparenza “pre-seriale” in cui la natura ciclica e l’attitudine alla ripetizione sono tuttavia già presenti negli scambi narrativi. Tale dimensione è caratterizzata soprattutto dall’impossibilità di chiudere le narrazioni, soprattutto quelle dalla matrice più popolare: l’opera è strutturalmente aperta e, pertanto, “interminabile” (Eco, 1962). Se spingiamo la riflessione oltre i confini semiotici del testo, tale apertura appare atta a contenere la rete dinamica delle relazioni interumane e le loro rappresentazioni nell’immaginario.

In una prospettiva socio-culturologica, tutto muta con l’azione progressivamente sempre più espansa della tecnologia tipografica nella vita quotidiana. Alcuni eventi storici – ad esempio, la Seconda rivoluzione inglese – favoriscono riforme politiche e culturali che investono l’Europa nel Settecento: tra le più importanti, la tutela legale del diritto d’autore avviata nel quadro della specializzazione professionale dell’industria editoriale, incipit del mercato librario di massa e razionalizzazione del processo di costruzione dell’immaginario che – attraverso figure nevralgiche come Edgar A. Poe – crea le condizioni per istituire la fondamentale innovazione della “macchina dei generi” (Brunetiére, 1980; Schaeffer,1992).

Prima del feuilleton e delle varie forme di serializzazione del prodotto letterario con la nascita di inediti dispositivi contenitori (dime press, penny dreadful, pulps magazine, ecc.), occorre considerare l’importanza seicentesca e poi settecentesca dei blue books (diffusi soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania), libri commercializzati da venditori ambulanti, spesso un sedicesimo alla volta e per lo più non venduti ma affittati (Andries, 1989; Mandrou, 1985). È qui che inizia a percepirsi il complesso mutamento in atto nei processi di costruzione sociale della realtà, che porterà al mercato dei consumi letterari di massa inteso come parte costitutiva di un nuovo modus della partecipazione sociale (Bianchini, 1988; Runcini, 1984). Incamerando il principio industriale della serialità in un’estetica, nel secolo XIX il feuilleton costituisce un dispositivo di snodo per l’avvento definitivo della serialità come “definizione teorica dei processi che sono al cuore della cultura di massa” (Abruzzese, 1984).

In base alla ricostruzione dei fenomeni collegati all’affermazione del medium tipografico quale piattaforma tecno-culturale in grado di sostenere le dinamiche dell’innovazione sociale in una fase storica di straordinaria pregnanza, rendendola così comunicabile, si può illuminare meglio il grande tema della serialità nell’ambito dell’organizzazione strategica dei media e cogliere la prospettiva genetica attraverso cui oggi è possibile parlare di post-serialità.



 
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