Programma della conferenza

V Convegno Nazionale SISCC “Mondi possibili. Tra crisi, conflitti e pratiche creative” / Bari, 22-23 giugno 2023

Il convegno della SISCC intende esplorare le complesse relazioni fra crisi e pratiche creative, il corto-circuito fra emersione e anestetizzazione del conflitto sociale nonché le potenzialità delle nuove pratiche creative e culturali di disegnare nuovi scenari e ipotizzare nuovi mondi possibili. Per andare oltre il paradigma della crisi e della emergenzialità, bisogna pensare e operare in modo nuovo senza rispondere a crisi con crisi e a emergenze con post-emergenze. Quali fenomeni di questo tipo sono oggi visibili?

 
 
Panoramica della sessione
Sessione
Sessione 2 - Panel 1: Lo sport tra conflitti e crisi sociali. Pratiche comunicative, culturali e politiche.
Ora:
Giovedì, 22.06.2023:
15:30 - 17:00

Chair di sessione: Giovanna Russo
Luogo, sala: Aula Don Tonino Bello

Piano terra, Dipartimento di Scienze della Formazione, Psicologia, Comunicazione Palazzo Chiaia - Napolitano, Via Scipione Crisanzio 42

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Presentazioni

Lo sport tra conflitti e crisi sociali. Pratiche comunicative, culturali e politiche.

Giovannipaolo Ferrari1, Fabrizio Di Buono2, Francesca Romana Lenzi3, Valentina Fedele4, Giovanna Russo5, Barbara Mazza6, Daniele Battista1, Gabriele Leone7

1Università di Salerno; 2FLACSO Argentina; 3Università Foro Italico, Roma; 4Università Link, Roma; 5Università di Bologna; 6Sapienza Università di Roma; 7Lapland University

Lo sport, come processo culturale, assolve a molteplici funzioni. Tra queste, storicamente, ha sempre assunto il ruolo di regolamentare forme di conflitto e dissenso, sia a livello macro-politico, sia nell’ambio della gestione di piccole comunità. Come esplicitava chiaramente già Marcuse (1967) negli anni ’60, lo stesso carattere competitivo dello sport va inteso come esternalizzazione del dissenso ed esplicitazione di disuguaglianze sociali, finalizzate all’attivazione di modalità risolutive.

In tal senso, la storia dello sport è ricca di esempi: a livello macro è possibile considerare il ruolo dei i giochi olimpici che sono sempre stati vetrine strategiche per processi che vanno dall’affermazione di regimi autoritari (es. il nazismo negli anni ’30) all’affermazione di potenze politico-economiche negli equilibri internazionali, dall’esplicitazione di rivendicazioni terroristiche e di forme di dissenso razziale alla negoziazione tra Stati per evitare conflitti mondiali (si pensi al più recente tra Usa e Corea del Nord in occasione delle Olimpiadi invernali 2018). Allo stesso modo, fenomeni dilaganti di violenza, teppismo vengono disciplinati nella gestione di incontri sportivi sui territori, così come la regolamentazione di meccanismi di inclusione e di contrasto verso barriere socioculturali, economiche ed anche ideologiche. Questo non significa che le vie intraprese siano sempre efficaci. Accanto a casi storici di successo – si pensi al calcio fiorentino o al valore assunto da diverse regate divenute poi “storiche”, vi sono casi di insuccesso, tipo la gestione di “confinare” il conflitto in contesti già degradati (Appadurai 1996), come nel caso delle banlieue parigine o di limitarlo negli spazi urbani deputati – come gli stadi – per vederlo poi deflagrare nelle strade cittadine e, ormai, nelle autostrade, in vere e proprie forme di guerre tra fazioni.

Resta indubbio che il processo di civilizzazione (Elias 1996) passa necessariamente per un superamento dei conflitti che appare ancora più urgente al giorno d’oggi in cui il mondo si trova in un equilibrio precario, reso ancora più evidente dalla crescente frammentazione del sistema internazionale, legata alle crescenti tensioni Cina-USA, l'emergere di movimenti populisti, lo scoppio della guerra in Ucraina, come di molti altri conflitti dilagati in varie parti del mondo. In questo scenario, gli eventi sportivi e, ancor più gli atleti, diventano pedine per una rappresentazione simbolica delle posizioni in campo.

La comunità scientifica e, in particolare, gli studiosi dei fenomeni sportivi hanno il compito di interrogarsi su tali fenomeni e di delineare approcci che possano fornire un contributo al dibattito nazionale e internazionale su questi aspetti almeno sotto due aspetti prioritari: il contributo regolatorio e negoziale dello sport nelle relazioni internazionali e la costruzione di una narrazione del conflitto che, al di là delle tendenze manipolatorie e spettacolarizzanti incentrate sull’emergenza, possa fornire alle opinioni pubbliche modelli e prospettive per il futuro.

Il panel precostituito proposto si incardina in un filone di approfondimento che il gruppo nazionale di studiosi dello sport sta portando avanti e che avrà come output un numero dedicato della rivista Eracle dal titolo A game of states? Sport and international politics. Proprio, in virtù, di questo impegno, la partecipazione al convegno di Bari costituisce un’occasione preziosa, volta a verificare lo stato dell’arte del dibattito scientifico in corso e per garantire un maggiore confronto tra gli studiosi sul tema, al fine di un maggior approfondimento sui nodi chiave e su quanto emerge dai contributi proposti. A tal proposito, i paper selezionati, provenienti da Atenei italiani e stranieri, riportano studi - alcuni ancora in corso – sul ruolo geopolitico dello sport in alcuni Paesi “caldi”: la Cina per la quale lo sport costituisce un importante strumento di modernizzazione all’interno e di affermazione di supremazia all’esterno; il Kurdistan – al centro dei conflitti che investono direttamente diversi Paesi come Turchia, Siria, Iraq e Iran – dove lo sport e i suoi luoghi (gli stadi in particolare) assumono una valenza strategica per le attività di protesta, come per quelle di repressione, ma soprattutto di marginalità, precarietà e nonostante ciò anche di affermazione e ricostruzione della propria identità; l’Ucraina, rappresentata dai suoi atleti nel mondo, al fine di comprendere gli effetti devastanti in termini di benessere psico-fisico. Infine, la dimensione geopolitica dello sport è altrettanto visibile nelle esperienze migranti di minori non accompagnati per i quali lo sport si rivela all’occorrenza “safe place” o forma di capitale sociale, esperienza regolatoria del conflitto identitario che tali soggetti sperimentano nel processo di inserimento nel sistema italiano con tutto ciò che ne consegue. Tra ambiguità e ambivalenze delle politiche migratorie si sviluppa così la narrazione di un conflitto che fa riferimento a strutture e discorsi transnazionali la cui normativizzazione si esprime in forma strategica negli spazi quotidiani dello sport.

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Il futuro del calcio in Cina. Tra esperimenti sociali, scandali e fallimenti

Giovannipaolo Ferrari, Università degli Studi di Salerno

Daniele Battista, Università degli Studi di Salerno

Dalla fine degli anni ’70 dello scorso secolo, quando si preparava già alla “grande apertura”, la Cina ha cercato di legittimarsi di fronte alla comunità internazionale attraverso diverse strategie, tra cui cercare il riconoscimento internazionale nello sport e il tentativo di estendere rapidamente la sua influenza sulle istituzioni sportive transnazionali utilizzando e combinando tra di loro soft power, status nazionale e lo sviluppo interno delle discipline olimpiche e, in particolar modo, del calcio. Già Deng Xiaoping, amante appassionato del bel gioco, aveva riabilitato il calcio e cercato di dare una nuova linfa alla ricostruzione di un movimento calcistico cinese. Ma è con l’elezione di Xi Jinping a Segretario Generale del Partito Comunista Cinese (PCC) nel 2012, che fu lanciata una vera e propria strategia di sviluppo del calcio cinese attraverso riforme strutturali che possono essere sintetizzate in otto azioni principali: (1) sviluppare il campionato nazionale di calcio professionistico sul territorio nazionale; (2) accrescere internamente la popolarità del calcio; (3) aumentare la partecipazione dei giovani; (4) far crescere la squadra nazionale fino a farla diventare la migliore in Asia; (5) far crescere i vivai popolarizzando il più possibile il gioco del calcio per dar vita al prossimo “fenomeno” calcistico; (6) qualificarsi regolarmente alla fase finale dei mondiali di calcio; (7) candidarsi ad ospitare un mondiale, e, infine, impresa questa davvero ardua, (8) vincerlo entro il 2050 coronando così il “sogno cinese”. Gli investimenti, la partecipazione e i consumi mediali nel mondo del calcio hanno subito un incremento a partire dall’implementazione di questo piano di riforme e il rilancio del calcio è diventato un obiettivo strategico fondamentale per la Cina. I club privati spesso sovvenzionati da fondi pubblici, hanno offerto grandi somme di denaro a giocatori stranieri per attirarli in Cina e il governo ha investito nella realizzazione di infrastrutture in tutto il Paese per aumentare l’interesse della popolazione e far crescere la cultura sportiva e calcistica. I continui fallimenti della nazionale maggiore maschile – però – e, in tempi recenti, la pandemia da Covid-19 con la conseguente flessione nella crescita economica del gigante asiatico, hanno fatto emergere le contraddizioni del calcio cinese. Dall’inizio del 2020 a oggi, infatti, più di una decina di club cinesi si sono sciolti per bancarotta e l’establishment di Pechino ha dovuto rivedere la programmazione degli ultimi cinque anni, mettendo un freno agli ingenti investimenti pubblici. Il nostro contributo cercherà di mettere in evidenza gli intrecci che collegano questa disciplina al complesso e variegato sistema di potere cinese. Gli osservatori più attenti si trovano di fronte a quello che potrebbe essere definito un “paradosso di potere”, laddove le politiche e gli investimenti indirizzati verso la crescita del calcio in Cina sono suffragati da alcuni elementi costituenti l’interesse nazionale di un paese nello sviluppo dello sport: (1) l’interesse nazionale nello sport è vincere titoli; (2) l’interesse nazionale non è rilevante quanto l’abilità e la capacità di uno Stato di creare i presupposti per vincere competizioni; (3) maggiori risorse e ingenti investimenti possono garantire prestazioni migliori, ma non necessariamente la vittoria di titoli. Inoltre, negli ultimi trent’anni, il calcio ha rappresentato anche uno strumento di “modernizzazione dall’alto” essenziale per il governo cinese dove le classi medie sono state il “bersaglio” privilegiato per la promozione di attività ricreative e modelli di vita consumistici rappresentando parte dello sforzo del Partito-Stato di integrarle in un blocco storico trasformato. La complessità della governance del sistema calcistico cinese rappresenta un’urgenza da dirimere rapidamente per la dirigenza del PCC per non creare un caso di fallimento nazionale sul piano ideologico e propagandistico e di sperpero di risorse pubbliche sul piano economico e finanziario.

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La questione curda vista dagli spalti: proteste e repressione oltre i confini

Gabriele Leone, Lapin yliopisto/Lapland University

Fabrizio Di Buono, FLACSO Argentina

In questo paper ci proponiamo di analizzare la relazione che intercorre tra la condizione della popolazione curda e il mondo della protesta curda a partire dalle curve del tifo organizzato calcistico, evidenziando le connessioni territoriali che oltrepassano la dimensione calcistica e le frontiere (imposte). Come dimostrano i recenti fatti di cronaca turca che vedono al centro la protesta e la repressione dei tifosi dell’Amedspor, squadra curda che milita nella Super Lig – Turkiye 1, gli spalti degli stadi rappresentano uno spazio sociale di dissenso contro gli assetti politici dominanti (Fedele, 2021; Bifulco e Pirone, 2014). Elemento che caratterizza queste forme di protesta nel Kurdistan turco è quello di incorporare istanze sociali che vanno oltre i confini che frazionano il territorio curdo in quattro Stati. Il caso dei tifosi dell’Amedspor ha riguardato diversi ambiti sociopolitici, quali: l’uccisione nell’Iran curdo della sedicenne Mahsa Amini; la protesta contro il festival governativo nel sito UNESCO di Diyarbakir, nel Kurdistan turco, militarmente distrutto dal 2015; il rifiuto di alzarsi durante l’esecuzione dell’inno turco nel corso di una partita di campionato.

Per analizzare quanto accade, consideriamo il Kurdistan come una “colonia internazionale” (Beşikçi, 1991), in quanto nazione divisa tra quattro Stati diversi. A tal proposito, İsmail Beşikçi teorizza che i curdi sono stati storicamente divisi, schiavizzati, privati dell'identità e isolati gli uni dagli altri per l'eternità. In questo modo, il Kurdistan ha ottenuto uno status inferiore a quello di una colonia. La sua identità collettiva è stata resa inesistente. Le proteste messe in atto da un gruppo di tifosi curdi in Germania, ci impongono di tenere in considerazione anche i movimenti migratori che dipanano la causa curda in quei Paesi che non appartengono alla divisione del Kurdistan. Ai fini di condurre la nostra analisi, utilizzeremo la “frontiera come metodo” (Mezzadra e Neilsson, 2013), in quanto, essendo la frontiera un prodotto giuridico che marca un atto di potere (Bourdieu, 1980; Spíndola Zago, 2016), permette indagare il potere che impone un’egemonia sullo spazio, e allo stesso tempo, di analizzare quegli atti di ribellione che all’attraversare la frontiera evidenziano le soggettività e le alterità da essa prodotte, articolando pratiche di marginalità e precarietà con le identità sociali stigmatizzate dal potere. Pertanto, ci interrogheremo sul ruolo ricoperto dal calcio all’interno di queste proteste, evidenziando le risposte delle federazioni calcistiche (in particolare quella turca, l’UEFA e la FIFA) a questi episodi e i canali di diffusione delle proteste tra stadio, territorio e migrazione, osservando che tipo di spazio per l’azione politica viene prodotto e le eventuali ripercussioni. Nonostante la divisione del Kurdistan in diverse Stati, la nostra ipotesi è che attraverso la protesta si sviluppa un immaginario collettivo che considera il territorio curdo oltre le frontiere turche, siriane, irachene e iraniane, concentrandosi sulla stratificazione interna al popolo curdo e specifiche istanze politiche.

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Sport e guerra in Ucraina: l’impatto della crisi sulla performance nel calcio

Francesca Romana Lenzi, Università degli Studi di Roma “Foro Italico”

Giuseppe Coppola, Università degli Studi di Roma “Foro Italico”

L’importanza del benessere e della salute come fenomeni complessi e multiformi (WHO 2004) costituisce una questione a cui è stata destinata un’attenzione sempre crescente anche con riguardo al mondo dello sport e, specificamente, quello degli atleti di élite. L’interesse per le condizioni di benessere degli atleti è determinato anche dal riconoscimento di esso come una componente importante della prestazione sportiva. In quanto tale, esso comprende tutti gli aspetti della sua vita, compresi quelli non legati all’ambito più strettamente fisico (Dunn, 2014). Nel corso della loro carriera, gli atleti d’élite sono costretti ad affrontare molteplici pressioni: ad esempio, Dubuc-Charbonneau e Durand-Bush (2015) hanno evidenziato gli alti livelli di burnout e stress accusati dagli sportivi e che hanno un impatto importante sul loro benessere. Questo può influenzare, insieme ad altri elementi, le prestazioni degli sportivi (Di Fiori et al., 2014; Raglin, 2001). La World Health Organization (2004) ha individuato il benessere come un fattore determinante per consentire agli individui di affrontare i fattori di stress socialmente relati, che rientrano tra le avversità affrontate per poter competere ai massimi livelli (Tamminen, Holt & Neely, 2013). Ivarsson et al. (2015) nei loro studi hanno indicato che i calciatori che percepiscono il loro ambiente come un supporto e sono concentrati su uno sviluppo a lungo termine, sono meno predisposti a soffrire lo stress e sperimentano un benessere maggiore. Il lungo periodo di crisi che ha investito il mondo sin dallo sviluppo della pandemia di Covid-19 è stato alimentato ulteriormente dalla recente guerra in Ucraina. Come già dimostrato, le comunità colpite da conflitti mondiali sono vittime di conseguenze non solo fisiche ma anche psicosociali in grado di generare gravi complicazioni per il loro status di benessere (Hassan et al., 2016). La recente crisi in Ucraina ha esposto atleti d’élite a situazioni di ansia e stress, elementi considerati in grado di alterare o modificare la performance (Lundqvist & Raglin, 2015). Il World Health Organization (2021) ha confermato che il benessere individuale delle persone è stato profondamente alterato dall’inizio della crisi globale. Dallo scorso febbraio, la guerra in Ucraina ha guadagnato le attenzioni del mondo e ha innalzato il tasso di rischio della salute per gli ucraini in relazione al loro status di benessere (Awuah et al., 2022). La guerra in Ucraina dallo scorso febbraio ha generato conseguenze dal punto di vista del benessere nel mondo dello sport in tutta Europa, come testimoniato anche dagli stessi calciatori (Lineker, 2022). In questo contesto il paper, come parte integrante di un progetto di dottorato, avrà l’obiettivo di analizzare la performance dei calciatori ucraini nei campionati professionistici europei dopo l’inizio della guerra, confrontando le loro prestazioni con la stagione precedente per evidenziare cambiamenti e differenze rispetto al passato. Lo studio verrà condotto su 1878 calciatori ucraini impegnati nei campionati professionistici europei e l’analisi verrà effettuata su dati secondari attraverso il database della piattaforma Wyscout. Le statistiche raccolte faranno riferimento al periodo tra il 24 febbraio e il 30 giugno delle stagioni 2020/2021 e 2021/2022, analizzate attraverso il software Jamovi per studiare la performance dei calciatori (Santin, 2014) permettendo così il confronto delle prestazioni tra i due campionati. Una parte della ricerca sarà destinata al confronto delle prestazioni di 4 calciatori ucraini impegnati nella Serie A italiana e nella Premier League inglese studiando le differenze nella media e nei punteggi minimi e massimi tra le 10 variabili considerate. L’analisi poi proseguirà con il confronto delle prestazioni dei calciatori ucraini impegnati in tutti i campionati professionistici europei, suddivisi per ruolo e con un’analisi monovariata condotta sulle diverse variabili scelte.

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Pratiche Sportive e Minori non Accompagnati in Italia

Valentina Fedele, Università Link, Roma

Nel solco di una più ampia tradizione di approfondimento sul tema dello sport e delle migrazioni (Borgogni, Digennaro, 2015; Gasparini, 2013; Martelli, 2015), a partire dal 2011, molti studi si sono concentrati sulla relazione tra migrazioni forzate e sport, con uno specifico interesse rispetto al ruolo che quest’ultimo può avere all’interno dei percorsi di inclusione sociale di richiedenti asilo, rifugiati e rifugiate (Jeanes, O’Connor e Alfrey, 2014; Spaaji, 2015; Whitley, Coble e Jewell, 2016; Spaaji et al., 2019) ed in particolare sulla possibilità che attraverso la pratica sportiva si costruiscano forme di capitale sociale utili al raggiungimento degli elementi che compongono la faccia pubblica dell’integrazione – alloggio, lavoro, auto-sufficienza, conoscenza linguistica. Altre analisi hanno, invece, approfondito il ruolo dello sport come ‘safe place’ (Spaaij e Schulenkorf, 2014; Michelini 2020), un possibile spazio autonomo di confronto con i pari e con la società circostante all’interno del quale sono attivati processi di etero e auto-riconoscimento, nel contesto di una transizione geografica e demografica assai incerta. Da questo punto di vista, un’esperienza meno analizzata, ma particolarmente significativa, è quella attraversata dai minori non accompagnati, il cui processo di inserimento nel sistema italiano presenta specifiche caratteristiche normative e sociologiche. Essi vivono, infatti, una specifica condizione di accoglienza: in quanto minori, essi sperimentano un processo di infantilizzazione nelle forme di accompagnamento, determinata dalla condizione di vulnerabilità, presupposto della loro permanenza. Al contempo, però, sono interessati un processo di adultizzazione forzata, legato sia alle responsabilità familiari di cui sono investiti, che spesso determinano una rinuncia inevitabile al perseguimento di aspirazioni personali (Mai, 2011). Tra ambiguità e ambivalenze, questi giovani migranti contrattano continuamente il loro percorso di vita con operatori/trici dell’accoglienza da un lato e famiglie di origine dall’altro, che lascia poco spazio alla loro soggettività. Quest’ultima è considerata spesso solo come ‘capacità di intendere’ e strumentalizzata sia nelle politiche che li riguardano direttamente – dal rimpatrio alla richiesta di asilo – sia nei percorsi istituzionalizzati di inserimento nella società circostante (Bolzman 2020). Le pratiche non funzionali al processo di inserimento – come lo sport, ma anche la musica o la pratica religiosa – pur ritenute importanti nella costruzione del benessere psico-fisico, sono considerate marginali rispetto alle necessità formative e lavorative sollecitate tanto dalle famiglie di origine, quanto dal sistema di accoglienza. Esse, però, proprio perché costituiscono uno spazio relativamente non normativizzato, offrono una opportunità di espressione ed elaborazione autonoma delle soggettività dei minori, che intese in modo processuale (Moore, 1994; 2007) sono costitutive della loro stessa agency, ovvero del modo in cui agiscono nel mondo che agisce su di loro. In questo senso, il processo di elaborazione della soggettività, determinato in relazione a discorsi e strutture transnazionali, si traduce in pratiche sociali, forme di accomodamento e resistenza rispetto al contesto in cui si agisce, che, appunto, trovando poco spazio di azione a fronte della normativizzazione degli spazi di accoglienza, si esprimono soprattutto nel quotidiano, seguendo de Certeau (1984), lo spazio in cui le persone agiscono le loro “tattiche” irrompendo, resistendo, cambiando le “strategie” delle istituzioni.

Considerando lo sport come uno degli spazi ‘liberi’ del quotidiano nell’esperienza dei minori non accompagnati, a partire da una ricerca condotta tra il 2020 e il 2023 in alcuni centri SAI calabresi che ha coinvolto 20 giovani migranti e 10 operatori/operatrici dell’accoglienza, l’intervento proposto si concentra sulle forme e gli strumenti di contrattazione dello spazio dello sport – del calcio in particolare – nel confronto con operatori/operatrici e famiglie di origine. Attraverso l’analisi delle narrazioni sull’esperienza del calcio dei minori, si cercherà di far luce sulla più ampia prospettiva che essi manifestano rispetto al proprio percorso, alle forme di elaborazione e rielaborazioni dell’esperienza e delle aspirazioni, attraverso le quali si dipanano possibili forme di autodeterminazione.



 
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