Programma della conferenza

Sessione
Sessione 5 - Panel 2: Culture digitali
Ora:
Venerdì, 23.06.2023:
15:00 - 17:00

Chair di sessione: Francesca Pasquali
Luogo, sala: Aula 18

Secondo piano, Dipartimento di Scienze Politiche Palazzo Del Prete, P.zza Cesare Battisti 1

Presentazioni

In principio fu Gemmadelsud: vent'anni di web partecipativo in Italia attraverso le star del ridicolo

Stefano Brilli

Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia

La messa in ridicolo dell’altro è una parte integrante del comportamento sociale degli esseri umani, tesa fra la sua funzione socio-positiva di aggregazione del gruppo che ride e la sua funzione socio-negativa di esclusione del soggetto deriso (Berger 1997, Meyer 2000). Nell’attuale panorama socio-mediale l’oggetto del ridicolo acquisisce però una peculiare centralità, laddove esso costituisce uno dei più frequenti centri di convergenza dell’attenzione dei pubblici.

Sin dai primi sviluppi delle culture partecipative online, lo scherno è stato un importante propulsore della circolazione dei contenuti digitali. L’evoluzione della semantica della celebrità che ha accompagnato il web 2.0 è intimamente legata a processi di dileggio connessi (Brilli 2023). Fenomeni virali ormai classici attorno a cui si è costruita la nozione stessa di “viralità” hanno dimostrato come la propagazione digitale sia spesso legata a un atteggiamento canzonatorio (Shifman 2014).

Ciò è osservabile nei casi in cui detrattori e anti-fandom (Gray 2003, Click 2019) partecipano con la loro ostilità all’affermazione delle celebrità a cui si oppongono, ma anche nell’emergere di anti-star (Gamson 2011) la cui notorietà dipende in primo luogo dal dileggio: la figura dello zimbello e quella della celebrità trovano nelle culture digitali numerose occasioni di sovrapposizione. L’essere “odiati perché famosi” non è certamente una novità della società delle reti, ma la traduzione dell'attenzione degli utenti in visibilità consentita dai social media ha aumento le possibilità di essere anche “famosi perché odiati” o “famosi perché derisi”.

Nel presente contesto “post-web 2.0”, a seguito della platformization della produzione culturale (Poell et al. 2021) dell’ascesa dell’influencer culture (Abidin 2018, Hund 2023) e della disintermediazione della sfera pubblica (Bentivegna, Boccia Artieri 2021), il ridicolo sembra essere diventato una lingua franca ancora più quotidianizzata: l’irriverenza come cifra del dibattito politico (Highfield 2016; Phillips, Milner 2017); l’esteso uso negli UGC di format come duetti e reaction basati sulla “risposta ironica” (Matamoros-Fernández 2023); soggetti istituzionali che impiegano la derisione nelle comunicazioni ufficiali, come nei recenti casi di shitpost diplomacy nella crisi russo-ucraina (Salvia 2022). Il ridicolo, quindi, rappresenta una valida lente d’osservazione del rapporto tra sviluppo tecnologico, spazio pubblico e culture popolari della rete.

Il contributo vuole indagare i legami fra derisione e fama nella cultura digitale. L’obiettivo è quello di analizzare i significati, i piaceri e le relazioni che i pubblici connessi elaborano attorno ai soggetti che ridicolizzano, e il modo in cui la cultura digitale riconfigura la derisione, nel momento in cui questa può aumentare la visibilità mediale dei soggetti a cui è rivolta. A tal fine la presentazione cerca di storicizzare questi mutamenti ripercorrendo le diverse forme di fama-tramite-la-derisione che hanno caratterizzato il web partecipativo italiano negli ultimi vent’anni: la prima fase pre-social media dei miti televisivi travasati in rete (2003-2006), l’esplosione dei “fenomeni da baraccone del web” che caratterizza la prima diffusione di YouTube in Italia (2006-2011), l’era del lolrap e delle trash star di YouTube (2012-2015), l’ascesa della galassia del “degrado” e del “bomberismo” su Facebook e Instagram (2016-2019), fino ad arrivare alle forme di “derisione orizzontale” tipica della circolazione cross-piattaforma dei short video (2020-2023). Ognuna di queste configurazioni della celebrità ridicola permette di osservare periodi con caratteristiche sociotecniche specifiche che raccontano l’evoluzione della cultura popolare digitale in Italia; dall’altra parte, come si sosterrà, si tratta anche di forme che sviluppano dinamiche di “lunga durata”, sia tramite processi coscienti del tempo quali la rielaborazione, il revival e la nostalgia, sia tramite forme di circolazione anacronistica, che definiscono per certi pubblici un eterno presente dei media.



SOCIAL MEDIA CHALLENGES. Usi e gratificazioni nell’adesione a queste nuove pratiche creative

Cosimo Miraglia, Maddalena Carbonari

Sapienza, Università di Roma, Italia

La cultura digitale tende a sfumare il confine tra produttore e consumatore, «leading to a more open, democratic and collectively organised media environment» (Burgess, Miller, Moore 2018, p.1037); i prodotti di tale cultura si configurano come artefatti fluidi e malleabili, sottoposti a un continuo processo di decostruzione e ri-costruzione da parte degli utenti (Bruns, 2008). In tale contesto, recentemente, si sono sviluppate nuove pratiche culturali creative, denominate social media challenges (SMC). Queste possono essere definite come contenuti digitali strutturati intorno a sfide ludiche, di abilità o coraggio, che invitano utenti singoli o in gruppo a (re)interpretare creativamente una performance e a condividerla sui propri canali social (Burgess, Miller, Moore 2018; Schlaile et al. 2018). Queste pratiche partecipative sono ormai ampiamente diffuse negli ambienti digitali, tanto da essere diventate parte integrante delle attività che gli utenti svolgono quotidianamente. Ciononostante, la letteratura scientifica sul tema è poco consolidata e per lo più circoscritta a contributi di natura psicologica o medica, mentre sono limitati i tentativi di inquadramento sociologico, focalizzati soprattutto sull'analisi di specifiche challenges (Giordano, Farci, Panarese 2013; Sutherland 2016; Giordano, Panarese, Parisi 2017). A questo si aggiunge una rappresentazione distorta e parziale da parte dei mezzi di informazione, che tendono a trattare le SMC solo a seguito di fatti di cronaca e a inquadrarle esclusivamente come sfide pericolose in cui i giovani mettono a repentaglio la propria incolumità (Lupariello et al. 2018; Roth et al. 2020).

Un aspetto non indagato a sufficienza e oggetto del presente contributo si riferisce alle dinamiche di adesione dei partecipanti a queste sfide. Per condurre lo studio si è scelto di utilizzare come frame teorico la uses and gratification theory (Katz, Gurevitch, Haas 1973), originariamente formulata in riferimento ai media tradizionali per capire come, perché e con quale scopo le persone li utilizzino nella loro vita quotidiana (Weyan 2015). Recentemente, la teoria è stata rivista e riadattata anche per i social media, per spiegare le motivazioni alla base dell’utilizzo di piattaforme come Facebook (Papacharissi, Mendelson 2011; Smock et al. 2011) e Instagram (Lu, Lin 2022; Phua, Jin, Kim 2017) o alla partecipazione a particolari attività, come la condivisione di foto (Malik, Dhir, Nieminen 2015; Menon 2022).

L’obiettivo è comprendere le logiche che sottostanno all’adesione a queste pratiche sociali e alla condivisione sui SNSs, rispondendo alla seguente domanda di ricerca: quali sono le motivazioni che spingono gli individui ad aderire alle social media challenges? Quali le gratificazioni che ricercano?

Per quanto concerne lo strumento di rilevazione, si è optato per interviste semi-strutturate, che si configurano come particolarmente adatte per approfondire eventuali temi specifici emersi durante la discussione (Corrao 2005). Il gruppo di studio è stato definito a partire da un database realizzato nell’ambito di una ricerca più ampia volta a censire le challenge condivise sui social network sites tra il 1° gennaio 2020 e il 31 gennaio 2021 e quindi per lo più performate nel periodo pandemico. La scelta di attingere a tale set di dati ha permesso di selezionare uomini e donne, di età compresa tra i 18 e 50 anni, che avessero preso parte ad almeno una sfida e l’avessero condivisa sui propri profili social.

I primi risultati sembrano indicare che le logiche di adesione alle social media challenges siano legate a bisogni integrativi di personalità e bisogni di evasione e intrattenimento. Nello specifico, queste pratiche creative sono percepite dagli intervistati come spazi in cui mettere in risalto le proprie capacità e ottenere riconoscimento sociale; anche l’intrattenimento sembra avere un ruolo chiave nel determinare la partecipazione a queste sfide, suggerendo il carattere ludico e di divertimento comunemente associato ad esse.



Post-Narcisismo. Instagrammer ai tempi del Covid

Nicola Strizzolo1, Giovanni Fasoli2, Massimiliano Moschin2

1Università di Teramo, Italia; 2Istituto Universitario Salesiano Venezia (IUSVE), aggregata all'Università Pontificia Salesiana di Roma

I contatti tra sociologia e psicologia hanno dei pregressi notevoli, se si considera, in maniera assolutamente non esaustiva ma esemplificativa, che lo stesso Durkheim attinse dai padri della psicologia, le collaborazioni di Parsons, la linfa vitale della psicoanalisi alla Scuola di Francoforte, l’ecletticità di Fromm e l’utilizzo sociologico della Scuola di Palo Alto.

Se pensiamo ad aree di studio come la presentazione del sé nei social network, questa fusione di sguardi viene rinnovata, ad esempio con il concetto di estimità, fino a sconfinare nella filosofia con quello di coalescenza.

Uno dei concetti maggiormente utilizzato, frutto di questa contaminazione, è quello di ‘Narcisismo’: non solo per descrivere la continua esibizione di sé nei social, ma con antecedenti che affondano le radici nelle esperienze di liberazione e rivolta dagli schemi della tradizione borghese dal ‘68 in poi, per passare attraverso l’edonismo degli anni ’80, arrivare alla moderna spettacolarizzazione della politica e fino al post-pandemia con il concetto di ‘post-narcisimo’, la risultante, sulle persone, in particolare adolescenti, che hanno alle spalle esperienze con adulti narcisisti.

Sul concetto di ‘Narcisismo’, centriamo il nostro studio e la domanda di ricerca è la seguente: possiamo riscontrare dei modelli di espressione online riconducibili a chiari tratti narcisistici, nel contesto delle limitazioni subite dal Covid-19 e quanto questi modelli comportamentali diventano elemento per la costruzione identitaria?

La sfida è duplice: infatti ci interroghiamo sia sulla possibilità metodologica, supportata dalla collaborazione tra psicologi e sociologi, di rilevazione dell’oggetto sia sull’esistenza della condizione che vorremo verificare.

Gli obiettivi sono quelli di individuare e codificare pratiche di narcisismo nei social media nei contenuti con maggiore impatto durante la pandemia da Coronavirus, per comprenderne le motivazioni e gli obiettivi dei soggetti realizzatori dal punto di vista dell’auto-espressione di sé e misurare l’impatto di questi comportamenti e messaggi derivanti su un gruppo giovanile in chiave squisitamente psicologica e in riferimento alla dimensione antropologica, pedagogica ed etica (A.P.E.).

La ricerca si articola attraverso tre distinte fasi:

- raccolta dei casi e analisi del contenuto

- interviste in profondità sui casi rilevanti emersi dalla prima fase

- focus group su target esposto alla comunicazione per valutarne l’adesione e l’impatto

Nel nostro paper esporremo solamente la prima fase, ovvero il frutto dell’analisi delle immagini postate in combinazione al testo associato. Abbiamo raccolto centinaia di post su Instagram prodotti durante il lockdown, selezionati in base al numero di engagement (superiore a 1000), ma che non fossero prodotti da celebrity o influencer professionisti (in qualche modo sponsorizzati).

La nostra analisi ricerca fenomeni emergenti e stilemi ricorrenti attraverso una mappatura degli stili comunicativi e di estetizzazione degli oggetti di indagine.

L’oggetto preliminare di maggiore interesse è proprio riscontrare l’evoluzione del modo di esprimersi attraverso i contenuti di utenti e profili e l’eventuale emergere di personalità digitali proprio durante questo singolare periodo.

Questa prima fase è così strutturata attraverso la ricerca e l’individuazione di casi significativi mediante analisi dei dati di engagement incrociati con alcune parole chiave che possano identificare pratiche di espressione, in una successiva analisi socio-semiotica e psicologica degli stili di comunicazione e dei profili identitari emergenti e in un conseguente approfondimento in modo da evidenziare trend e stilemi peculiari per definire la comunicazione nei social network durante il lockdown da parte di una serie di attori significativi per la portata quantitativa dei propri messaggi.

La finalità è riscontrare o meno la presenza di stilemi condivisi e ricorrenti o peculiari ma significativi per l’impatto sull’ecosistema digitale, osservando i contenuti prodotti in chiave psicologica e sociologica, validando l’eventuale presenza di atteggiamenti narcisistici.



Tutti ne fanno, nessuno ne parla: come le screenshotting practices raccontano la nostra società connessa.

Elisabetta Zurovac

Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Italia

Fotografare lo schermo per strappare al flusso della conversazione frammenti significativi, per trattenere ogni sorta di informazioni utili da magari condividere poi con gli altri, sono diventate attività elementari quanto diffuse. Archivi disordinati; testimonianze di qualcosa che avviene nel digitale e che si vuole trattenere per svariati motivi: possono sembrare attività personali e marginali, eppure hanno luogo su base quotidiana e restituiscono il rapporto tra memoria e oblio, tra pubblico e privato; lo sradicamento di informazioni dal loro contesto; il lato performativo dell’intimità connessa (Boccia Artieri et al. 2017). Lo schermo rappresenta non più il momento di passaggio per arrivare ad altro, ma viene ricompreso come contenuto stesso attraverso le pratiche legate allo screenshot. Il loro scopo più ovvio, fin dall’inizio, è stato quello di fornire prove, o illustrare in modo diretto, delle attività svolte su uno schermo (Gaboury 2021). Diversi studiosi (Poremba 2007; Giddings 2013; Moore 2014; Gaboury 2019) trattano questi oggetti in relazione all’ambito che li vede impiegati, altri li intendono come qualsiasi immagine che ritragga un’azione che si svolge su uno schermo (Allen 2016; Möring, Mutiis, 2019), anche qualora questa immagine venga colta attraverso una macchina fotografica; senza che si possa giungere così a una definizione univoca. Per questo motivo, alcuni autori (Jaynes 2019; Jenkins, Cramer e Sang 2022) si sono concentrati sull’investigazione della pratica in sé e per sé, con l’obiettivo di fare chiarezza su come le modalità di impiego si inseriscano nella vita degli individui nel continuum on-line/offline. La pluralità delle finalità e di contenuti degli screenshot, porta alla necessità di definire da una lato il tipo di oggetto con il quale abbiamo a che fare, e dall’altro la molteplicità di pratiche connesse a questo, che chiameremo screenshotting practices. Lo studio delle pratiche è centrale nel comprendere che cosa facciano gli individui con i social media e quali significati, quindi, attribuiscono a essi tramite queste attività (Couldry 2004). Così per studiare le screenshotting practices, si passa da un impianto metodologico qualitativo di stampo netnografico (Hine 2015), in cui si tiene conto delle affordance degli spazi analizzati situandovi le pratiche (Bordieu 1977; Schatzki 1996). Con screenshotting practices si vuole indicare la pletora di pratiche generate attorno a questo tipo di immagini, e che riguardano tanto la produzione quanto la diffusione delle stesse. Tali pratiche hanno in comune (a) l’essere visibili; (b) l’essere pensate per un pubblico; (c) l’essere rispondenti alle affordance degli spazi online nei quali hanno luogo. I diversi tipi di pubblici e di ambienti digitali, le interazioni che hanno luogo producendo e riproducendo culture legate alla rete, fanno sì che la pratica esploda in rivoli in cui gli screenshot vengono impiegati secondo modalità differenti, e possono subire anche forme di manipolazione e remix. Tramite l’analisi di due spazi molto diversi tra loro si mira a comprendere le funzioni di tali pratiche, facendo infine emergere delle prospettive di interpretazione del rapporto tra media digitali e individui, in riferimento a intrattenimento, forme di legittimazione e informazione. Si mostreranno dunque i risultati della ricerca condotta dal 2019 al 2021 in TikTok, orientata all’utilizzo degli screenshot nelle narrazioni digitali del sé, e dal 2021 al 2022 in Telegram, che mirava invece a investigare l’uso delle immagini nei canali legati all’informazione alternativa. Nell’intreccio tra affordance delle tecnologie di comunicazione e screenshotting practices si mostra il poliedro di immaginari, significati e conseguenze del digitale che caratterizzano la società connessa contemporanea e le modalità in cui memoria, sorveglianza e spettacolarizzazione passano attraverso i nostri schermi – e grazie a loro – tramite l’agency individuale.



Nuove narrative virali, creatività vernacolare e social media: best practices nei processi di deradicalizzazione del terrorismo internazionale.

Raffaella Scelzi, Laura Sabrina Martucci

Università degli studi di Bari Aldo Moro

Nella società digitale o Platform society è facile essere intrappolati nel ruolo di prosumer guidato esclusivamente da processi generati dalla combinazione di produzione e consumo. Occorre individuare nelle dinamiche e nelle pratiche digitali quelle azioni che riconducano alle best practices da adottare come modello applicabile da esportare e diffondere viralmente originando nuove pratiche narrative positive. L’analisi di alcuni casi emersi sulle piattaforme social di Instagram, Tik Tok, Twitter, propone nuove forme di narrative e contro-narrative fondate sull’idea di creatività vernacolare (Jean Burgess) la cui diffusione, epidemiologicamente esponenziale, riconduce a comportamenti da adottare e propagare. Nell’ambito dei processi mirati alla deradicalizzazione, in cui i social network giocano un ruolo dominante, l’idea di una nuova cittadinanza culturale creativa si nutre del concetto di creatività tecno-vernacolare (TVC) che collega alfabetizzazione tecnica, equità e cultura, comprendendo innovazioni creative prodotte da gruppi etnici che sono spesso trascurati. I nuovi artefatti mediatici producono nuove “disidentità panottiche” invadenti, attraverso le quali gli inforg people (Floridi) agiscono nella vita sociale, economica e mediatica, come in un gioco di doppia inversione, dove appare sempre più difficile distinguere ciò che è vero da ciò che non lo è. Questa “condizione di perenne accerchiamento mediale”[1] mina l’identità stessa di ciascuno di noi, ormai consapevolmente immerso nel mondo digitale come in uno stato di duplicazione poichè i nuovi media non ci permettono alcuna distinzione da esso. Questa indistinzione dialettica è definita “obversione” (Senaldi), la società risulta cambiata dalle tecnologie, produce “amputazioni organiche” ed “estensioni sensoriali” dove la conoscenza connettiva velocizza lo scambio tra scienze in una guadagnata trasversalità e approfondimento. La disidentità o identità diversa non implica disuguaglianza. È il risultato della condizione umana che Jean Baudrillard ha chiamato “stato video", in cui la vita nella videosfera, si intreccia con le dinamiche dell’infosfera e manipola l'identità individuale, imprigionandola nei nuovi media con nuove narrazioni. Questo tratto riconoscibile soprattutto nelle rappresentazioni artistiche e mediali, produce l’identità inversa proiettata nell’onlife digitale, riflessa in essa e proiettata di ritorno attraverso i nuovi media. Il presente articolo si propone di indagare in maniera critica sul fenomeno delle nuove narrative virali, analizzando sviluppo e caratteristiche principali di casi rappresentativi, esplorandone le modalità comunicative, gli stereotipi, i risvolti sociali e il ruolo nella lotta contro la piattaformizzazione delle società, i temi della sicurezza e i temi sociali più ampi come Gender Equality e accessibilità. In risposta alle narrative stereotipate o fake come quelle degli influencer islamici che dominano sulla rete si analizzeranno gli esempi di nuove narrative virali da contrapporre come best practices: Euroislam.eu su Instagram offre il punto di vista istituzionale delle Comunità islamiche operanti in Italia; Tasnim Ali, che indossando il velo, racconta l'Islam su TikTok con il format "Nessuna domanda è stupida se fatta educatamente”; la campagna virale su Twitter delle donne felici di avere un marito musulmano di Ottavia Spaggiari (08 giugno 2017) mostra le foto con l’hashtag #hosposatounmusulmano, la rivolta delle mogli sorridenti che hanno postato su Facebook e Twitter le proprie foto per rispondere all’articolo di Libero, che invitava le italiane a non scegliere mariti musulmani. I media partecipativi aprono lo spazio ai comuni cittadini, per parlare e rappresentare diversi modi di essere nel mondo, e per accettare le differenze tutelando le minoranze soprattutto le più vulnerabili, recuperando uno spazio in cui l’azione quotidiana della condivisione digitale e virale possa incardinarsi nell’idea di sostenere la cittadinanza culturale attraverso una pratica creativa quotidiana che diviene impegno civico, il cui unico fine è evitare la dicotomia “noi-loro”.

[1] Il concetto di disidentità panottica ampiamente descritto in Senaldi M., 2014, Obversione. Media e disidentità, Milano: Postmedia Books, p. 10, è esteso dall’ambito artistico all’ambito sociale.